The Heavy Countdown #53: Sink The Ship, God Is An Astronaut, Cancer Bats, Dimmu Borgir

Sink The Ship – Persevere
C’è chi ha definito un certo tipo di musica “easycore”, e in effetti per descrivere il sound dei Sink The Ship non mi viene in mente nulla di altrettanto azzeccato. Non esiste termine migliore per dipingere quel particolare mix tra pop punk e metalcore di cui, per esempio, gli A Day To Remember sono tra i massimi esponenti. E “Persevere” è un disco alla ADTR, piacevole ed equilibrato allo stesso modo, leggero ma mai banale. I Nostri, pur rimanendo nei limiti del loro orticello, hanno molto da dire, e si fanno pure dare una mano da Levi Benton dei Miss May I (“Everything”) e Bert Poncet dei Chunk! No, Captain Chunk! (“Domestic Dispute”).

God Is An Astronaut – Epitaph
I God Is An Astronaut sono tra i campioni del post rock (anche space rock se proprio vogliamo). E con “Epitaph”, il trio irlandese dimostra di saper fare anche di più, come sfiorare il doom metal (in particolar modo nella title track), o accarezzare lo shoegaze (“Seance Room”). Un lavoro molto cupo ma al tempo stesso leggero come una piuma, un flusso da cui è molto difficile estrapolare un singolo episodio. Da ascoltare a mente sgombra, nell’intimità delle propria mura domestiche.

Lume – Wrung Out
All’inizio non volevo neanche avvicinarmi a “Wrung Out” dei Lume. In giro avevo letto di troppi riferimenti ai Deftones, e siccome di cloni della band di Chino Moreno, diciamo la verità, ne abbiamo tutti piene le tasche, la tentazione di lasciare da parte questo disco era molto forte. Ma per fortuna, sono riuscita a vincerla. “Wrung Out” è un lavoro intimo e malinconico, dalle atmosfere cupe ma al contempo eteree, in pieno stile Deftones, ma con un tocco prettamente alternative tutto personale. Da ascoltare e godere.

Limbs – Father’s Son
“Father’s Son”, il debutto dei Limbs, è un disco post-hardcore molto più sfaccettato di quanto si possa pensare. Il quintetto originario della Florida si cimenta alle prese con il concetto di rabbia, indagata in tutte le sue sfumature, ma soprattutto, stando alle lyrics e all’andamento dei brani di “Father’s Son”, quella speciale incazzatura che si prova dentro di sé, anche se non necessariamente contro di sé. E infatti, si passa dal post-hardcore più classico alla calma apparente di pezzi come “Twelve Stones” o “Sacrament”, in cui i ritmi sembrano rallentare proprio per rispecchiare quanto espresso sopra.

Shields – Life In Exile
A pochi mesi dalla tragedia che ha colpito gli Shields (per chi non lo sapesse, il suicidio del chitarrista George Christie), la band londinese dà alle stampe “Life In Exile”, un album di debutto che si può ascrivere senza troppa fatica a quella “new wave of metalcore” fortemente influenzata dal djent (ascoltatevi anche i Loathe per avere un altro esempio molto calzante). La rabbia e la violenza che traspaiono da questa opera sono controbilanciate da un amore per la melodia studiata ma tutt’altro che trita (vedi “White Embers”). Sarà difficile lasciarsi alle spalle un dramma del genere, ma i ragazzi hanno tutte le carte in regola per funzionare.

Cancer Bats – The Spark That Moves
Un ritorno gradito quello dei Cancer Bats, che con il sesto lavoro in carriera non diranno niente di mai detto o scritto prima, ma se non altro mettono di buon umore. Hardcore ‘n’ roll apprezzato anche dai palati più fini come colonna sonora per rendere meno noioso un viaggio, o semplicemente per pomparsi il giusto. Uno shottino di poco più di mezz’ora, che fa stare bene senza lasciare sgradevoli cerchi alla testa.

The Word Alive – Violent Noises
Nonostante un paio di abbandoni piuttosto pesanti in line-up, i The World Alive hanno deciso di proseguire per la loro strada come trio, dando alla luce questo “Violent Noises”. Onesto ma prevedibile (come la maggior parte delle volte il melodic metalcore sa essere), il quinto full-length dei TWA inizia con il botto, e con un interessante featuring di Danny Worsnop degli Asking Alexandria in “Stare At The Sun”, ma verso la metà dell’opera, si inizia a scendere di corda. E la chiusura con la super deprimente “Lonely” non è delle più azzeccate.

Dimmu Borgir – Eonian
Dopo un lunghissimo silenzio discografico, i Dimmu Borgir tornano con un nuovo album di inediti, “Eonian”. E cosa ci si potrà mai aspettare dalla formazione black metal più mainstream che esista (insieme ai Cradle Of Filth)? Esattamente un altro disco, se non esattamente uguale, molto simile al precedente, e a quello prima ancora. I fan di Shagrath e soci avranno di che gioire ovviamente, ritrovando la pomposità sinfonica tipica della storica band, ma diciamolo, contestualizzato nel 2018 tutto ciò fa abbastanza sorridere. Per inguaribili nostalgici.

Blind Channel – Blood Brothers
Secondo disco per i finlandesi Blind Channel, che mischiando hip-hop, elettronica e pop con sonorità più heavy si inseriscono in quel calderone chiamato alternative metal. Come intuibile dal primo singolo “Sharks Love Blood”, l’ago della bilancia pende pesantemente verso lo zucchero, sia per quanto riguarda le lyrics che il sound complessivo, in un carosello di pezzi orecchiabili ma a cui manca un po’ l’anima. I Linkin Park e i 30 Seconds To Mars dei tempi che furono continuano a mietere vittime.

Godsmack – When Legends Rise
Un album dei Godsmack che non sembra dei Godsmack fin dalla copertina. Infatti, la band di Sully Erna ci ha abituati a un immaginario molto cupo, a partire dagli artwork per dire. E già la copertina di “When Legends Rise” spiazza per il suo inusuale candore. Per non parlare di come suona questo disco. Infatti la nuova direzione dei Nostri, decisamente più melodica e pulita, arriva dopo voci sullo scioglimento e una serie di progetti solisti nei quali non solo il frontman, ma quasi tutti i membri della formazione, si sono tolti qualche sfizio. Ma al di là di qualche autoplagio dal passato più o meno recente (“Say My Name” e “Let It Out”) “When Legends Rise” potrebbe essere un qualsiasi lavoro di una qualsiasi hard rock band di stampo americano.