L’undicesimo album in studio degli Slayer (sì, c’è anche “Undisputed Attitude” ma è un disco di cover) usciva sotto i peggiori auspici. L’attesa, ora più che in passato, era scossa da tensioni sotterranee per quello che sarebbe stato il primo LP senza la presenza di Jeff Hanneman; tanto che, dopo la sua morte, alcuni tra i fan più irriducibili della band icona del thrash metal mondiale avrebbero preferito non ascoltare mai più del nuovo materiale. Fra parentesi, c’è da capirli: Hanneman ha scritto la maggior parte dei capolavori del gruppo. Oltre a questo, il secondo allontanamento di Dave Lombardo e il ritorno di Paul Bostaph dietro le pelli alimentava polemiche a dismisura. Si temeva il peggio e, c’è da ammetterlo, molti aspettavano l’11 settembre solo per massacrare la nuova uscita senza alcuna pietà, con una cattiveria che, forse, neppure “Reign in Blood” saprebbe esprimere.
Adesso che è fruibile per tutti, si deve ammetterlo: “Repentless” non fa schifo. Anzi. Gli Slayer si sono affidati all’usato sicuro, tanto tupatupa e pochi fronzoli, per sfornare un buon disco di thrash classico, in cui il loro trademark è ben udibile in ogni nota. La presenza di Gary Holt è discreta, non aggiunge ma nemmeno toglie nulla alle 12 tracce del cd. Sicuramente non c’è niente che faccia pensare agli Exodus, ché anzi ultimamente in studio se la stanno cavando benissimo da soli. Le accelerazioni, i rallentamenti, le ritmiche, gli assoli, la voce di Araya: tutto come da copione. Non traspare un briciolo di sperimentazione, cosa abbastanza ovvia; in un album con sopra quel logo nessuno la cerca, e poi “Diabolus in Musica” finì per scontentare quasi tutti, mentre l’hardcoreggiante “God Hates Us All” risultò fin troppo controverso. Dicevamo della presenza di Bostaph: chi l’ha sempre apprezzato lo farà anche questa volta, chi rimpiange Lombardo non cambierà idea. Pazienza. Ricordiamo però che il buon Paul suonò in modo stupendo nel sottovalutatissimo “Divine Intervention”, e solo per quello meriterebbe la massima considerazione fra i batteristi metal.
Tornando a “Repentless”, lo possiamo considerare quasi come una seconda parte di “Christ Illusion”, non a caso l’unico capitolo nella storia del quartetto in cui Kerry King scrisse la maggior parte della musica. Adesso, in particolare, s’intuisce come ce l’abbia messa tutta per non far rimpiangere Jeff. In parte ci riesce: i brani più tesi e veloci, come la title – track, “Take Control”, “Atrocity Vendor”, “You Against You” e “Implode” funzionano benissimo. Al contrario quelli più lenti e cadenzati, seppur formalmente perfetti, falliscono nell’impresa di rendere quella particolarissima atmosfera morbosa che solo Hanneman sapeva creare (dopotutto “Dead Skin Mask” e “Seasons in the Abyss” sono sue); a “Vices”, “Cast in Stone” e “When the Stillness Comes” e “Pride in Prejudice” manca esattamente quel quid in più per convincere del tutto. Eppure anche queste si lasciano ascoltare, soprattutto la seconda.
Un’opera che sta nel mazzo. Nessuno sano di mente avrebbe potuto pretendere un nuovo capolavoro alla “South of Heaven”. Soltanto un buon disco capace di raggiungere il livello medio a cui gli Slayer ci avevano abituato nell’ultimo ventennio. Obiettivo raggiunto. Chi non lo riconosce o è in malafede oppure devastato dalla nostalgia per un’epoca che, purtroppo, non tornerà mai più. Questo, però, non è colpa di “Repentless”.