Ci sono artisti indubbiamente dotati che, presi nel vortice della loro ambizione smisurata e tracotante, finiscono per smarrire il contatto con la realtà e la consapevolezza dei propri limiti naturali, creando così opere talmente ciclopiche negli intenti da risultare, almeno in parte, deludenti. È il caso dei Solefald e del loro ultimo album “World Metal. Kosmopolis Sud“, difficile anche solo da pensare. Talmente controverso e contradditorio da instillarti il desiderio che la recensione si crei da sé. Ma è impossibile. Allora è necessario sforzarsi come dannati per mantenere un atteggiamento equilibrato (ma come, quando si parla di qualcosa che l’equilibro non lo conosce e, soprattutto, non vuole conoscerlo?) nei riguardi di una collezione di composizioni che hanno nel mostruoso e nel grottesco le loro cifre stilistiche. Evitando l’elevazione a capolavoro o la stroncatura feroce e senza appello. Lasciando che il disco decanti nel limbo degli incompiuti, e poi tra una ventina d’anni saranno altri a giudicare quanto è stato davvero rilevante per la musica.
Che cosa volevano scrivere Cornelius e Lazare? L’opus (a loro, probabilmente, piacerebbe venisse chiamato così) definitivo dell’avant-garde metal tutto? Si rimane senza parole nel sentire una così smisurata congerie di ingredienti diversi. Qua tutto è troppo: troppi cori, troppi strumenti messi tutt’insieme, troppi riff e battiti techno/electro e atmosfere tribali/africane/esotiche e neoclassicismi europei e voci pulite sporche deliranti in troppe lingue diverse sovrapposte in troppe declamazioni ‘colte’. Un tripudio barocco che s’infila in un vicolo cieco.
Analizzare “World Metal. Kosmopolis Sud” traccia per traccia è inutile oltreché impossibile. A parte l’ormai famigerata “Bububu Bad Beuys” (nella sua follia è persino divertente, sebbene non sia così ‘sperimentale’ come si sarebbe voluto), il resto somiglia a una versione ancor più schizzata (ma meno riuscita) di “Neonism”. Però quel disco uscì nel 1999, quando certe strade erano vergini o quasi, mentre questo pare una collezione di figure retoriche ormai conosciute da chiunque sia un fan di Arcturus, Enslaved, Ulver, Borknagar, Vintersorg e Solefald stessi. Per andare oltre non basta inserire basi ‘tunz tunz’ da rave mitteleuropeo (“World Music With Black Edges”), omaggiare il dubstep (“The Germanic Entity”) o utilizzare il timbro peculiare di una kalimba – una sorta di marimba in miniatura, pizzicata anziché percossa – in un paio di brani per evocare l’Africa e la cultura musicale di quel continente.
Neppure gli svarioni acid-rock di “2011, or a Knight of the Fail” colpiscono più di tanto. Certo, alcune emozioni vengono suscitate nonostante tutto: difficile rimanere indifferenti di fronte a certe aperture sinfonico/corali come quelle presenti in “Future Universal Histories”. Proprio questa canzone, però, più di tutte fa da specchio alla fragilità dell’operazione. Il testo, che mescola in proporzioni diverse inglese, norvegese e tedesco, è quanto di più supponente si possa immaginare. Vorrebbe, immaginiamo, mettere in contrapposizione i pensieri di un soldato prussiano allo scoppio della Grande Guerra con un elenco di nomi, personaggi, opere, eventi e date che scandirono il periodo storico fra i due conflitti mondiali. E allora largo ai Ruggenti Anni Venti negli Stati Uniti, la Repubblica di Weimar in Europa, l’Art Déco, il Dada, Eliot e Joyce, Breton e Lang, la Terza Internazionale, la Grande Depressione e il vecchio Freud inevitabilmente tirato in ballo.
Sì, e quindi? Non si capisce davvero dove i due vogliano andare a parare. Dimostrare di essere colti e raffinati, mica i soliti metallari tutti birra, tupatupa e riffacci da osteria? Far vedere a tutti di averlo più lungo? Istruire i loro poveri fans/discepoli? Oltretutto, quando citano Stravinsky dicendo che “La nuova musica segue le linee tracciate da La Sagra della Primavera”, dimostrano di non conoscere neppure tanto bene quello di cui stanno parlando. Si tratta di un falso storico. Quell’opera fu un caso isolato, come molte altre composte nei 2/3 anni immediatamente precedenti il 14/18. E lo stesso Stravinsky cambiò immediatamente registro: negli anni Venti si diede al Neoclassicismo e al recupero del Barocco Sei/Settecentesco, mentre il resto dei compositori dibatteva tra Nuova Oggettività (Hindemith), dodecafonia (Schoenberg e allievi) e tentazioni jazz. Addio Sacre e barbarie pagana, addio Espressionismo e Urschrei. Inezie, particolari da nulla, sofismi? Beh, sono stati i Solefald per primi a ergersi a grandi intellettuali, e allora stiamo al giochino e facciamo cadere le pareti di cartongesso che il duo ha edificato con una certa dose di spocchia.
Perché, musica sin troppo arzigogolata a parte (che poi sappiano suonare non lo scopriamo certo oggi), il difetto maggiore di “World Metal” è proprio il prendersi sul serio a tal punto che sembrerebbero in gioco le sorti del mondo (solo musicale, si spera). Una mancanza pressoché totale di autoironia e di leggerezza, che sembrerebbe voler nascondere un oscuro complesso d’inferiorità verso chissà quali grandi compositori.
Piacerà moltissimo a chi li segue da sempre e in modo quasi fideistico, chi rimpiange certe soluzioni dei primi anni lo apprezzerà più moderatamente. Per tutti gli altri si tratta di un’uscita dispensabile.