Steven Tyler ci pensava da anni a fare un suo album solista, ma qualcosa lo aveva sempre frenato (forse il successo dei suoi Aerosmith?) è così è dovuto arrivare alla soglia dei settanta per concedersi questa libertà, diciamocelo, un po’ autocelebrativa.
La premessa di voler realizzare un progetto con sonorità country ha fatto fischiare le orecchie a molti fan, a qualcuno si è anche rizzata la pelle d’oca al solo pensiero, ma questo album va ascoltato senza preconcetti o chiusure dai fan del metal e dell’hard rock più puro – altrimenti perché ascoltare gli Aerosmith degli ultimi anni?
All’ascolto eccoci allora presentati dei signori pezzi, alternati a scivoloni non proprio clamorosi, ma deludenti quello sì.
Se “My Own Worst Enemy” in apertura è una ballata intensa, con una matrice più blues che country che getta ottime premesse, con un testo introspettivo e da applausi, se poi arriva “We’re All Somebody From Somewhere”col suo ritmo incalzante a scuoterti e a farti pensare che stai ascoltando qualcosa di inaspettato, non completamente inedito come sonorità ma assolutamente piacevole e ben scritto e arrangiato, ecco che dopo sole due tracce ti fai delle aspettative e ti viene da ridere di tutte le riserve che possono nascere quando ti senti dire che il nuovo lavoro del sig. Tyler è un disco country.
Poi però ascolti “It Ain’t Easy”, il brano coi violini e il mandolino che aspettavi al varco e che con la sua semplicità e immediatezza ti fa tornare coi piedi per terra e maledire il periodo trascorso dal buon Steve a Nashville, a farsi indottrinare dai guru del genere. “I Make My Own Sunshine” è un altro mezzo passo falso e anche “Sweet Louisiana” fa traballare la baracca.
Fortunatamente a 68 anni una rockstar vissuta come la nostra sa come non farsi inghiottire dalle paludi della mediocrità che porta sull’orlo del fiasco: “The Good, The Bad, The Ugly And Me” ripropone al momento giusto ritmi più frizzanti e cori “amici”, che danno quella spinta al proseguire nell’ascolto senza abusare della doppia freccia in avanti.
A ripagare l’ascoltatore per la sua pazienza nell’arrivare in fondo ecco due chicche: una cover fatta in casa di “Janie’s Got A Gun” vista in una nuova chiave acustica e “Piece Of My Heart”, successo di Janis Joplin in cui il leader degli Aerosmith ottiene un ottimo risultato con una voce graffiante finalmente lasciata libera di esprimersi in territori più consoni alla sua classe.
Un progetto ambizioso, fatto di sperimentazione e passione, coraggioso perché corre sempre sul difficile binario del country, un genere che può celebrarti come affossarti nelle sabbie mobili della mediocrità e del trito e ritrito che scoraggia il riascolto. Ma Steven Tyler sa come non impantanarsi e ne esce in piedi, ancorato per fortuna a una fune di buon vecchio blues che gli salva la faccia.