La lotta per la sopravvivenza della parte strumentale degli Stone Temple Pilots vede l’ennesimo epico capitolo con il secondo e consecutivo album self-titled della loro carriera. I fratelli Robert e Dean DeLeo con il batterista Eric Kretz hanno già da tempo guadagnato la nostra simpatia nella loro impressionante voglia di esistere, di far sentire la propria voce, nonostante abbiano perso ben due frontman di livello mondiale come Scott Weiland e Chester Bennington entrambi vittima di quella malattia ben conosciuta nel mondo dell’arte riconducibile sotto il termine di autodistruzione.
Gli STP li conosciamo bene, con “Core” esplodono indistruttibili e vincenti con un album impressionante pieno di potenza e melodia, ricco di hit e nulla scalfiscono le accuse della critica di calcare l’onda dello sfavillante flusso grunge degli anni ’90, in un percorso di autodeterminazione che li porta ad essere unici, i più eclettici e naif, cresciuto e coltivato attraverso la pubblicazione di un capolavoro dopo l’altro da “Purple”, “N.4”, “Tiny Music… Songs From The Vatican Gift Shop”, “Shangree La Dee Da” e l’omonimo album della reunion.
Alle prese con la difficile gestione dell’eclettico frontman Scott Weiland, gli Stone Temple Pilots procedono imperterriti nella loro carriera tentando di emergere dall’oblio di una vita senza il cantante, prima con l’album sotto il nome “Army Of Anyone”, molto buono e da riscoprire, con la partecipazione del vocalist dei Filter Richard Patrick e poi con l’ingaggio dell’amico di sempre Chester Bennington con cui fanno qualche tour e pubblicano l’Ep “High Rise”. Ma la sorte è nera sopra il nome Stone Temple Pilots, e prima si porta via Scott Weiland e poi Chester Bennington.
L’ennesima rinascita avviene dopo la molto discussa ricerca dell’ennesimo cantante trovato poi in Jeff Gutt, semisconosciuto vincitore di un famoso talent musicale che si è fatto le ossa nel gruppo crossover Dry Cell. I tre puntano su un vocalist passepartout che all’occorrenza può essere ora Bennington, ora Weiland, ora qualsiasi altro cantante grunge vi venga in mente.
L’album del 2018 è, come lo era “High Rise” dell’era Bennington, la conferma della assoluta trascendenza artistica e talentuosa di Scott Weiland, colui che riusciva a trasformare una bellissima canzone in un inno generazionale, una canzone riuscita a metà o leggermente priva di mordente una canzone bellissima e unica nella discografia di genere. Senza di lui il palco è terribilmente vuoto come lo è il nostro prezioso scrigno emotivo ascoltando questo nuovo album, che brutto non è, ma dove le canzoni belle rimangono soltanto belle, mentre i riempitivi rimangono tali.
Jeff Gutt ha una voce bellissima ed energica e i singoli già anticipati funzionano tutti benissimo, da “Meadow” a “Art Of Letting Go”, come “Roll Me Under” e “Never Know”, quest’ultima vero e proprio manifesto musicale dei Pilots e forse miglior pezzo dell’album con “Meadow”. Convincono anche la ballata sghemba “Just A Little Lie” e quelle più canoniche ma indubbiamente raffinate come “Thought She’d Be Mine” e “Finest Hour”, mentre la finale “Reds and Blues” è un saluto stanco di un serpente senza testa.
Anche gli episodi più tirati mancano di mordente, da “Middle Of Nowhere” a “Six Eight” e “Guilty”. I Pilots hanno lo stesso problema di un altro gruppo dell’era grunge che non si è rassegnato all’oblio, gli Alice In Chains. I Chains però hanno perso un solo dei due fuoriclasse nella band. Andato Layne Staley rimane Jerry Cantrell e una band di musicisti bravissimi e ricchi di esperienza. Nei Pilots i soli DeLeo e Kretz bastano per riproporre un sound che nel cuore dei fan è diventato riconoscibile come un profumo nostalgico, che porta bellissimi ricordi ma non per riagguantare la bellezza unica dei loro capolavori o anche solo della loro attitudine strana ed evocativa, che era tutta ad appannaggio di un fenomeno irripetibile, quel Scott Weiland estremo e scintillante, così assurdamente bello e potente che è stato una pena vederlo sfiorire e afflosciarsi negli ultimi anni fino alla morte su un bus mentre anche lui arrancava per non scomparire e per non ammettere, lui come noi, che era già scomparso da tempo.