Il fascino, l’aura di magnificenza che ricopre una perla incastonata, un evento unico che tale rimarrà per sempre. Un supergruppo che si unisce nel nome di una commemorazione, dell’arte e dell’amicizia, senza doppi fini commerciali. Solo la generazione degli anni ’90 ha potuto essere testimone di tale evento, con la nascita dei Temple Of The Dog e del loro incredibile, unico album di studio.
Era il 1990, i Pearl Jam erano un progetto in costruzione, i Soundgarden esplodevano e si consolidavano come prima realtà mondiale proveniente dalle cantine umide di Seattle, e il movimento Grunge moriva ancora prima di diventare mainstrem, in una camera di ospedale dove Andrew Wood esalava i suoi ultimi respiri, vittima, prima delle tante, di overdose. Molti saranno stupiti di sapere che il video di Smell Like Teen Spirit, le prime posizioni in classifica di Nirvana, Alice In Chains, gli stadi riempiti dai Pearl Jam sono solo una luce riflessa di uno spirito nato e morto all’inizio della decade che rese il Grunge un mito musicale da tramandare nelle generazioni.
Andrew Wood era il cantante di un gruppo con uno dei nomi più belli mai visti, i Mother Love Bone. Non era un cantante talentuoso, ma era un personaggio sopra le righe che sapeva farsi voler bene da tutti, soprattutto dall’allora suo coinquilino, quello che aveva talento da vendere. Un vero fuoriclasse, forse il più dotato tra tutti i musicisti di quell’epoca. Chris Cornell, già famoso agli inizi della decade, era visto da Andrew come un punto di arrivo, un modello da seguire. E non solo da lui. Cornell che è rimasto devastato dalla dipartita di Wood, e ancora adesso, che è un signore di cinquant’anni, parlandone scoppia a piangere come un bambino (vedere il documentario PJ20 dei Pearl Jam, diretto da Cameron Crowe), dichiarando che l’innocenza di tutto il movimento finisce con sua la morte, dando il cadavere di uno spirito in pasto ai negozi di magliette, alle classifiche, a Top of The Pops.
I sopravvissuti non hanno fatto altro che cavalcare l’onda, privi di anima e con i portafogli pieni. Con questo spirito crepuscolare, di perdita non rimpiazzabile, Cornell scrive di getto due tra le più belle canzoni del rock, ‘Say Hello To Heaven’ e ‘Reach Down’. I demo di questi pezzi, presenti nella versione Deluxe in uscita oggi, li ha ascoltati Jeff Ament, bassista dei Mother Love Bone e dei Pearl Jam, nati dalle ceneri del gruppo dal fantastico nome. E’ da quell’ascolto che nasce l’idea di unire i musicisti dei due gruppi, Soundgarden e Pearl Jam, per dare vita ai dieci pezzi che passarono allora quasi inosservati e che con il passare degli anni sono diventati leggenda.
Seattle alla fine degli anni ’80 era una fucina piena di fuochi fatui, giravi la sera tra i locali di musica dal vivo e potevi trovare in mezzo al fumo Cornell, o Mike Mcready, o Mark Lanegan, o il cantante dei Mudhoney Mark Arm, a chiacchierare, scherzare, non prendersi troppo sul serio. In mezzo a questi, un folletto stranamente vestito, coloratissimo, con gli occhiali da sole e i capelli biondi lunghi, un po’ tarchiatello, che saltellava ridendo tra un bicchiere e l’altro, un amico e l’altro, sempre però tendendo lo sguardo di adorazione al suo amico Chris Cornell.
Andrew Wood era la vera anima leggera del Grunge, che infiammava con la sua personalità eccentrica i palchi della città più piovosa d’America. L’amore per lui di tutti i componenti dei Temple of The Dog permea l’intero disco, che viene registrato e prodotto da Rick Parashar e presentato nel 1990 in un concerto esclusivo all’Off Ramp Cafè di Seattle per quello che rimane l’unico concerto ufficiale della band. Negli anni si sono viste diverse reunion, soprattutto mini set incastonate all’interno di concerti dei Pearl Jam, dove il Cornell ormai reduce di mille progetti, da quelli solisti agli Audioslave, dalle colonne sonore di film di 007 e album pop-elettronici con Timbaland si presentava sul palco in tutta la sua magnificenza e prestava l’ugola alla riproduzione di quei pezzi nati dall’amore per una persona perduta.
Il 2016 vedrà a Novembre il primo tour in assoluto della band, che in occasione del venticinquennale ripropone tutti i dieci pezzi, in aggiunta alle demo perdute, per celebrare quello che in queste ultime due decadi è stato unanimemente riconosciuto come il miglior prodotto di quell’era dal punto di vista compositivo e musicale. La prova che anche di getto, senza nessuna preparazione, senza le mani sporche di grandi etichette discografiche e solo contando sul talento di musicisti e sul loro desiderio di fare aggregazione all’insegna dell’amicizia e della musica, si può creare un’opera di grandissimo livello che può resistere al giudizio del tempo.
Scomparso Rick Parashar, il compito di togliere un po’ di polvere al prodotto è affidato a Brendan O’Brian, che ha lavorato con tutti i maggiori gruppi del periodo, ultimo lo strabiliante disco solista di Cornell ‘Higher Truth’. Avendo a disposizione i master originali di voci, batteria e chitarre, Brendan ha potuto svecchiare il suono e ricomporlo, togliendo un po’ di quel riverbero che tanto piaceva nell’era della flanella.
Il risultato è un ascolto più fresco e pieno dei pezzi del disco, un lavoro di ristrutturazione deciso anche se non radicale come quello fatto per la riedizione di Ten dei Pearl Jam. L’uscita di questa versione è stata accompagnata da un nuovo video per Hunger Strike, uno dei pezzi famigerati dei Temple. Mito vuole essere stata composta con l’aiuto decisivo di Eddie Vedder, che compare in uno dei duetti più belli di sempre con Cornell. In studio, al momento della registrazione, mentre il cantante dei Soundgarden non riusciva a trovare la tonalità per il ritornello (avete presente, I’m Gone Hungry, Yeeeeeaaah) un timido ma risoluto Vedder si avvicina al microfono e gli canta la base di tonalità sopra la quale il cantato devastante di Cornell dipinge la storia del rock. Così, invece di venire defenestrato, Vedder entra nel progetto, dando le backing vocals ad altri pezzi quali ‘Pushing Foward Back’ e ‘Your Savior’.
Questo album omonimo dei Temple Of The Dog è una prova di talento di Chris Cornell e della sua vena blues melodica, allora ancora sconosciuta. Di Mike Mcready, che con la sua attitudine Hendrixiana ha colorato i pezzi della carriera quasi trentennale dei Pearl Jam di classe e potenza. Di Matt Cameron, con la sua precisione e personalità, che anni dopo diventerà batterista a tempo pieno di entrambe le band. Dei gregari Jeff Ament, quello che ha lo stile più Grunge di tutti ancor oggi e di Stone Gossard.
La versione deluxe del 2016 prevede la forma rimasterizzata di tutti i pezzi dell’album, i demo perduti tra cui i due pezzi inediti ‘Black Cat’, un blues acido molto interessante, quasi un warm up di Cornell pre-registrazione, e la bellissima ballata decadente ‘Angel Of Fire’, che nell’album sarebbe forse stonata, ma da ascoltare come singolo assaggio da’ un piacere unico. Il tutto condito da alcuni interessanti outtake utili per incorniciare le session che hanno dato vita a quel quadro musicale. Nella versione super deluxe anche un dvd con varie esibizioni live, da quella già citata all’Off Ramp del ’90, di alcune collaborazioni con i Pearl Jam come quella per il PJ20 all’ Alpine Valley e al Benaroya Hall e il mini set per la reunion del ventennale dell’altro progetto cult di Seattle, i Mad Season, dove Cornell si è riunito per dare voce alle parti originariamente appartenute al defunto Layne Staley.
Non possiamo pretendere di ritrovare lo struggimento e la poesia nata dalla perdita di un amico morto a 24 anni, non da artisti che in queste ultime due decadi hanno percorso migliaia di chilometri musicali. ‘Sono i chilometri Marion, non gli anni’, dice Indiana Jones. E’ forse proprio l’esigenza di dare dei chilometri a quel progetto, farlo vivere come un’opera musicale vera, che ha dato la voglia ai musicisti di ritrovarsi e suonarlo dopo tanti anni. Andrew non c’è più, ma c’è l’amicizia tra Eddie Vedder e Cornell. Si parla di portare il tour in Europa, si parla di dare vita ad un secondo album. Non più, insomma, la perdita trasformata in arte, ma una celebrazione della vita. Il resto, è storia da fare. E noi vogliamo esserci.