Il ritorno dei pionieri del djent è stato uno dei più attesi di questo 2015, soprattutto per chi era curioso di sapere dove sarebbero andati a parare. Il rientro in line-up del vocalist Daniel Tompkins ha giocato un ruolo fondamentale per i TesseracT, che cambiano cantante con la stessa frequenza con cui ci si cambia d’abito. E infatti Tompkins, dopo la parentesi di quasi cinque anni con gli Skyharbor, ha portato con sé una ventata di ambient che non ha fatto altro che giovare alla formazione di Milton Keynes.
I ritmi atipici e le atmosfere oniriche non seguono uno schema prefissato ma vanno a feeling, entrando in circolo e crescendo ascolto dopo ascolto. “Polaris”, il terzo full-length dei cinque britannici, presenta una particolare maturità nella scrittura, nell’esecuzione e negli arrangiamenti, e la reunion con Tompkins frutta una nuova consapevolezza ed è fonte d’ispirazione per i suoi compagni di avventure, possedendo la voce più in linea con il sound dei TesseracT quanto a carisma e personalità.
La botta di energia della opener “Dystopia” è il modo migliore per entrare nel mood di “Polaris”, e presenta la feature distintiva di tutti gli altri pezzi che compongono l’opera, ovvero il basso (d’altro canto, in “Utopia” è sempre il martellare di Amos Williams a sottolineare e accompagnare il malessere e lo sforzo suggerito dalle lyrics). Con “Hexes” e le sue suggestioni vellutate si inizia a sognare, così come con il singolo “Survival”, l’episodio più radiofonico e accessibile di “Polaris”. La voce di Tompkins prende del tutto il volo nella malinconia di “Tourniquet”, un altro brano complesso che si inasprisce sul finale con riff ossessivi. L’aspetto più incredibile del gruppo è che dietro sonorità così lievi ed eteree si cela la disperazione più cupa, che si sfoga a meraviglia sul finale di “Seven Names”.
Con “Polaris”, i TesseracT si scrollano di dosso le catene del djent per lanciarsi definitivamente nei confini sfumati e labili del progressive metal, facendo leva sulla loro fama di cervellotici e virtuosi un po’ nerd. Il prezzo da pagare per questo salto nel vuoto è una complessiva omogeneità nella struttura dei pezzi, che alla lunga potrebbe risultare se non indigesta quantomeno soporifera. Ma rimane comunque un ottimo disco per chi ama sonorità contaminate e ha voglia di alienarsi per quarantacinque minuti in un universo parallelo fatto di vibrazioni astratte.