Mentre c’è ancora chi è ancora convinto che i The Darkness siano una band parodia o che “Permission To Land” sia stato un caso fortuito e magari sopravvalutato, Justin Hawkins e soci con “Last of Our Kind” pubblicano un grande disco e se la ridono.
Che poi è curioso che una band esplosa con raro impeto, in un’epoca dove quel genere di revival non è mai emerso con facilità dal marasma di pose, venga presa poco sul serio. Anzi, è ancora più diventente pensare che si accusi i The Darkness di essere derivativi quando è ormai consolidato che all’ascolto di un brano simile ai loro sfugga un malizioso “mi ricordano i The Darkness”.
Diciamo che dopo l’irripetibile debutto, un successore abbastanza disastroso e un discreto “Hot Cakes” che avrebbe dovuto portare luce dopo i periodi bui che hanno preceduto la reunion, la band dei fratelli Hawkins ce l’ha fatta: finalmente ha trovato la quadra e ha messo su disco una propria definizione. Ovviamente sono sempre i soliti casinisti, sgangherati e fuori script, e ci tengono a chiarirlo già da “Barbarian”, la violenta traccia d’apertura. Però “The Last of Our Kind” non solo si scrolla di dosso il fantasma dell’esordio, dimostra anche che il combo inglese è in grado di creare un album eterogeneo e con solide strutture.
Innanzitutto l’abusata tecnica dell’head voice (che noi tutti confondiamo con il falsetto) di Justin Hawkins è stata ridimensionata ed inserita in un range vocale notevole. E indovinate? Il frontman è totalmente a suo agio anche con un registro più basso.
Le influenze raccolte dalla fascia più gloriosa della storia del rock continuano ad essere troppe per essere enumerate, soprattutto tra Seventies ed Eighties, ma d’altra parte è anche per questo che possono definirsi a ragion veduta “the last of their kind”. Aerosmith, Led Zeppelin, Boston. Alcuni rimandi sono persino inediti, come quelli ai Fleetwood Mac nella semi-ballata “Sarah O’Sarah”, mentre i passi verso il classic rock e il blues degli Stones si fanno più marcati che in passato, emengendo con prepotenza nel magnifico brano “Hammer & Tongs”.
Come già facilmente riscontrabile in “Hot Cakes” i Queen diventano una presenza più massiccia di quegli AC/DC di cui Hawkins e soci avrebbero dovuto essere la parodia. “Mighty Wings”, per esempio, nonostante abbia un riff heavy metal, riporta alla mente progressioni e virtuosismi tipici della band di Freddie Mercury.
Tutti questi richiami al passato eppure non sembra una compilation hard & heavy masterizzata da un nostalgico, neanche un’accozzaglia retrò di omaggi. Questo è un disco, un solidissimo disco che chiarisce chi sono i The Darkness e di cosa sono capaci.
C’è anche spazio per la power ballad “Wheels of the Machine”, che pur non potendo ambire ad essere IL classicone lento delle future scalette (la loro “More Than Words”, per intenderci) è di sicuro un ottimo rilancio per quella vena melodica e nostalgica fino ad oggi solo intravista. Ma soprattutto l’intelligenza dei singoli del primo lavoro non era un’illusione, perché la title track è uno dei brani più maturi e fruibili mai scritti dalla formazione.
Quindi c’è tutto. Forse ci sono persino più certezze di quante richieste dai fan, di sicuro più di quante ne sarebbero bastate per zittire i detrattori.