Se dovessi esprimere un desiderio sarebbe quello di vivere in un mondo ideale in cui le band non fanno aspettare otto anni per fare uscire un album. Soprattutto se la band in questione è una fra le tue preferite. Soprattutto perché uno, in otto anni, delle aspettative se le crea e anche belle alte. E di sicuro l’asticella delle aspettative non cala se l’album si chiama “Everything You’ve Come To Expect” ed è l’ultima fatica dei The Last Shadow Puppets, la superband formata da Alex Turner e Miles Kane.
Il disco si presenta da subito come un pugno allo stomaco, che regala all’ascoltatore trepidante davvero poco di quello che in quasi una decade si è aspettato. Ma, una volta superato l’ostacolo della sorpresa, emergono in superficie tutta una serie di finezze compositive che fanno palesemente parte di un piano di due menti brillanti, che hanno costruito le proprie carriere con una giustificata serie di successi.
Da una parte, infatti, la spiccata dote lirica di Turner rende i pezzi delle poesie, trasformando gran parte del disco in un mix fra quanto si era già sentito in “Humbug”, in “AM” e nel suo lavoro da solista con “Submarine”. Dall’altra, Kane inserisce le sue chitarre garage che portano i brani in una dimensione che è l’evoluzione di quanto ci era già stato annunciato in “The Age Of The Understatement”.
Di nuovo non è il caso di giudicare il libro dalla copertina: se da una parte nell’album di esordio la cover era statica e i pezzi dinamici, in “Everything You’ve Come To Expect” la Tina Turner danzereccia della copertina lascia il campo a undici pezzi per la maggior parte seduti, che indagano l’ambiente del pop psichedelico in cui qualcuno potrebbe riconoscere addirittura una parentesi beatlesiana. È il caso della title-track, uscita come singolo con i suoi archi e le voci distorte e sognanti che non a caso rimandano alla musica britannica degli ultimi Sessanta.
Le atmosfere del primo album rimangono immutate in brani come “Aviation”, altro singolo, “Dracula Teeth” e “Used To Be My Girl”, mentre la coppia “The Element Of Surprise” e “Bad Habit”, singolo di debutto del disco, concede ritmo e respiro ad una narrazione prevalentemente malinconica e quasi adatta alla colonna sonora dei Bond di Connery e Moore.
Un altro discorso deve essere fatto per le ballate, in cui Turner sviscera tutta la propria vena nostalgica che avevamo avuto già modo di apprezzare nei lavori più acustici e regala come al solito perle di eleganza come “Miracle Aligner”, “Sweet Dreams, TN”, la ballata più orientata agli anni Cinquanta, e “The Dream Synopsis”, la chiosa di un album che, come dice il titolo della traccia, è più un sogno che qualcosa di materiale.
E se questo è quello che funziona, ciò che invece non va è che ci si ritrova nel complesso davanti ad una manciata di brani che sono tutti déjà-vu di quanto si è già ascoltato nelle singole carriere dei due frontman. Nulla di male, certo, se non fosse che per otto anni abbiamo aspettato qualcosa che avevamo già tra le mani. E questo basta a lasciare quel retrogusto di amarezza che non rende l’album da “apprezzabile” a “epocale”. Ma anche il propoli, nonostante sia amarognolo, fa bene alla salute no?