I Melvins non sono catalogabili. Non lo è una loro canzone, non lo è un loro album, nemmeno la loro carriera intera. Si divertono a sgattaiolare tra un’etichetta e l’altra, a confondere gli ascoltatori occasionali e i loro fan di sempre, a sfuggire ogni imbrigliamento per far ammattire chi tenta di descriverli e definirli. Un gruppo che in una carriera trentennale sforna 24 album ufficiali non ha problemi di espressione e non si limita in nulla, se ha qualcosa da dire la dice, senza preoccuparsi troppo di cose banali come coerenza e regole commerciali.
Questo atteggiamento li ha resi beniamini di un certo pubblico di nicchia e soprattutto dei loro stessi colleghi. Kurt Cobain li definiva “il passato, presente e futuro della musica“. Sono stati i primi ad inventare l’accordatura di chitarra bassa e aspra che ha caratterizzato la fase Grunge anni ’90 e la successiva nascita dello Stoner Rock. Volete quindi inserirli in questi due filoni? Non ci provate nemmeno. Potete trovare caratteristiche di questi due generi ma non abbastanza per annoverarli tra le loro file. Nei Melvins c’è molto di più.
“Hold It In” è una prova di questo sfuggente eclettismo. È una sorta di eccentricità controllata che si dipana attraverso una varietà di stili e ritmi che spiazza e confonde l’ascoltatore . Alcuni pezzi sono degni di nota, e rinnovano lo spirito sludge metal, stoner di stampo Sabbathiano con atmosfere ruvide e granitiche come l’opener “Bride of Crankenstein”, “Barcelonian Horsehoe Pit” e “Onions Make The Milk Taste Bad”. Come contraltare a questo buono materiale ci sono delle disgressioni pop francamente poco comprensibili, anche alla luce della volontà del leader cantante chitarrista Buzz Osbourne di rivitalizzare il sound. In “You Can Make Me Wait” sembra di sentire l’ultimo lavoro dei Pixies, mentre in “Eyes On You” un funk east coast che diverte ma spiazza, come se ascoltando l’album su Spotify improvvisamente partisse uno spot.
I Melvins sono dei cavalli di razza e, sia chiaro, nessun brano è di bassa qualità. È l’insieme ad essere troppo variegato, troppe svolte, confonde chi cerca di trovare un filo portante, qualcosa che dia una chiave di lettura all’insieme. Manca una risposta alla domanda”perché dovrei ascoltare l’ultimo dei Melvins?”. Quando fai dei lavori così disomogenei, rischi. Devi produrre una somma di perle, in modo tale che il forziere che apri sia di una bellezza abbagliante, per farti venir voglia di farti illuminare dalla sua maestosità ancora ed ancora. Altrimenti ti regala estemporanei momenti di benessere, ma niente di più. Album come “Houdini” del 1993 sono un esempio di come la molteplicità di espressione della musica dei Melvins dia un messaggio di insieme maestoso e, dal suo ascolto in poi, irrinunciabile. Quello sì che è un forziere pieno di gioielli. L’impressione è che con il loro “Hold It In” trent’anni dopo ci si trovi davanti più bigiotteria che certificata caratura.