“Little Victories” è il secondo album in studio dei The Strypes, i quattro adolescenti irlandesi che due anni fa esordivano con “Snapshot” e si rivelavano al pianeta come una band molto interessante. L’attesa intorno a questo disco era dunque forte, anche per capire se il meravigliosamente anacronistico rhythm & blues grezzo e quasi brutale del debutto discografico avrebbe caratterizzato anche questo lavoro, e la risposta è “sì e no”, anche se con una decisa tendenza verso il “no”. Il tema di “Little Victories” è più complesso, la band decide di sposare contemporaneamente diversi stili che hanno contraddistinto la scena indie rock degli anni ’00, andando quasi a sintetizzare un sound che ripercorre i passi di alcune band fondamentali del decennio passato, in particolare Arctic Monkeys e White Stripes.
Il garage rock si sente forte dalle prime tracce, tra le quali spiccano “I Need to Be Your Only”, che scorre su un ritmo boogie, la più melodica “A Good Night’s Sleep and a Cab Fare Home” o l’accattivante “Eighty-Four”. La progressione blues “Queen of The Half Crown” porta alla malinconica “(I Wanna Be Your) Everyday”, in cui compaiono le chitarre acustiche e un arrangiamento più morbido.
L’ascolto scorre piacevolmente, l’album contiene accenni di stoner rock nel brano “Now She’s Gone” e sfumature post-punk in “Cruel Brunette”, ma all’undicesima traccia, “Status Update”, compaiono improvvisamente le atmosfere rhythm and blues del primo disco, con un ritmo vicino al tribale, i suoni grezzi, e per non fasi mancare nulla c’è pure l’armonica. Anche la traccia finale “Scumbag City” prosegue sullo stesso stile e così fa “Fill the Spaces In”, contenuta nell’edizione deluxe, come a voler dire che la band non ha strappato il capitolo iniziale della propria storia.
Nell’edizione deluxe sono contenute altre tracce interessanti, come “Lover Leaves”, che ha addirittura un ritmo reggae (ma ormai non ci si stupisce più di nulla) e “G.O.V.”, che forse è uno uno dei migliori brani per composizione e arrangiamento.
L’eccessiva eterogeneità della tracklist è l’aspetto che genera le maggiori perplessità su “Little Victories”, che può apparire come un esercizio di stile di lusso. Dopo il successo all’esordio, le strade da intraprendere erano molteplici e di sicuro va apprezzato il fatto di non aver inciso una fotocopia sbiadita del primo album, ma qui l’impressione è che siano state prese tutte contemporaneamente.
L’album è comunque più che valido, i quattro ragazzi di Cavan (che sono ancora tutti sotto i vent’anni, non va dimenticato) hanno confermato tutto il loro talento e dimostrato di possedere una versatilità che alla loro età è quasi sorprendente e sarà fondamentale per il prosieguo di una carriera sempre più promettente.
In questo senso “Little Victories” può essere visto come un buonissimo disco di transizione, probabilmente inevitabile dopo un album d’esordio così d’impatto, ma anche così particolare per quanto riguarda il genere.