È inevitabile: per fare il musicista un po’ si deve soffrire della sindrome di Peter Pan. O, almeno, di una smodata tendenza a crogiolarsi nello spleen adolescenziale e nelle delusioni sentimentali. Il trucco a quanto pare è assumere questo postulato come verità e farne tesoro. Ed è più o meno quello che è successo ai The Vaccines, band della Londra occidentale uscita il 25 maggio con la terza fatica, “English Graffiti”.
Che si tratti di un lavoro frutto di una certa crescita musicale è qualcosa che la band non nasconde sin dal principio: rimarrebbe altrimenti inspiegabile l’eclettismo di passaggio dai suoni à la Ramones dei primi due album a questo potpourri di synth e ambienti lo-fi in cui ci si ritrova nelle produzioni di Dave Fridmann (MGMT, Tame Impala, Flaming Lips etc.) e Cole MGN (Beck, Caribou etc.). Ma quello che suona un lavoro maturo e costruito a puntino sull’onda dell’EP “Melody Calling” è in realtà un gioco di quattro ragazzi che di base puntano in alto senza voler crescere davvero. E questa è senza dubbio la loro carta vincente.
La spensieratezza di fondo, carica delle ambizioni con cui Justin Young ha dichiarato di voler diventare grande almeno quanto i Rolling Stones, si nasconde fra le chitarre suonate in modo sapiente che più che strumenti sembrano spade laser riverberate. Se ogni nota di “What Did You Expect From The Vaccines?” e “Come Of Age” era una splendida stoccata al cuore, in “English Graffiti” i The Vaccines ci pugnalano ripetutamente e alla velocità della luce, senza lasciarci il tempo di pensare. L’effetto è quello di essere storditi in un turbinio di suoni e sensazioni, mantenendo però il groove retrò e incalzante che aveva caratterizzato i due LP precedenti.
Al ritmo della tachicardia si consumano brani come “Handsome”, “Radio Bikini” e “20/20”, pargoli diretti di una nobile unione fra i crunch del passato e il noise delle produzioni che solo Dave Fridmann può regalare. Triade a cui si contrappone quella formata dalle ballate “(All Afternoon) In Love” (chi ha urlato “John Lennon”?), “Want You So Bad” e “Undercover”, la ghost track strumentale con cui tacitamente i The Vaccines ringraziano i mostri sacri del passato.
Ne emerge il quadro di un album che è ying e yang in ogni componente, dagli arrangiamenti ai testi, talmente di difficile definizione da risultare un intrigante equilibrio fra il garage rock dell’inizio e l’avanguardia di questo momento musicale della band. Che effettivamente ci si trovi di fronte a qualcosa destinato ad essere apprezzato sia ora che fra dieci anni, come Young aveva dichiarato, è difficile dirlo. Ma se il futuro è incerto, per i The Vaccines il presente è il migliore possibile.