Liars – Sisterworld

Che i Liars fossero davvero dei bugiardi, lo si era intuito quasi subito. L’esagitato dance – punk dell’esordio “They Threw Us All On A Trench And Stuck A Monument On Top” (2001) era solo un modo come un altro per iniziare, sfruttando la moda del momento e preparando il dopo. Così, all’indomani dei cupi rituali noise – no wave che intorbidivano la musica di “They Were Wrong, So We Drowned” (2004), la maggior parte della critica brancolava nel buio. Eppure, che il trio newyorkese avesse una marcia in più iniziava ad essere compreso da molti. La trasferta berlinese e la pubblicazione di “Drum’s Not Dead” (2006), capolavoro di dissociazione espressionista intinto di psichedelia aliena e distorta, chiarirono le enormi potenzialità della band. Tuttavia, il successivo album omonimo (2007) non stupiva più di tanto, anzi consolidava lo stile febbrile e angoscioso che il complesso stava costruendo a forza di salti nel buio. In attesa del prossimo.

“Sisterworld” rappresenta proprio questo. Un’ulteriore sfida che i Liars propongono ai loro ascoltatori, oltre che a se stessi. E, tornati da Berlino e trasferitisi a Los Angeles, allestiscono il loro album ‘noir’. Difficile non pensare che proprio la metropoli californiana abbia fornito più di uno spunto alla creazione lirico – musicale di quest’opera. Le affinità con le atmosfere dei Mr. Bungle di “California”, ma in generale con molta della produzione di Mike Patton, solistica e non, sono palesi. La prospettiva, però, è molto diversa. Il mondo del crimine illustrato da Angus Aaron e Julian è orfano dell’ironia pattoniana, e i personaggi che in esso s’incontrano sono privi di qualsiasi tratto ‘aristocratico’ e raffinato. Raymond Chandler è ormai morto e sepolto, e i suoi romanzi, crudi e realistici ma sempre fascinosi e dallo stile impeccabile, giacciono insieme a lui. A rimpiazzarlo è arrivato Bukowski, al quale però, toltagli la bottiglia, hanno schiaffato in mano droghe più o meno pesanti. E adesso anche lui, smarrito il caratteristico sense of humour, vede tutto più distorto e fosco, muovendosi in una malmessa suburbia fra disadattati di ogni specie, che ora gli paiono tutti potenziali assassini. I Liars non sono mai stati così pessimisti, e con “Sisterworld” toccano l’apice del loro scoramento esistenziale.

Nonostante questo, la musica della band non è mai stata così ricca e articolata. Anzi, quello che impressiona maggiormente è proprio la disinvoltura con la quale, immersi in un panorama spettrale, detriti di noise, post – punk, no wave e sperimentazioni assortite si combinino perfettamente in un’architettura sonora di più ampio respiro. Il disco potrebbe esser letto in molti modi differenti a seconda di chi l’ascolta, e gli innumerevoli riferimenti che lo compongono sembrano non esaurirsi mai.

L’inizio è affidato a “Scissor”, in cui ai cori del gruppo e alla narrazione ubriaca di Andrew si affiancano archi e pianoforte, prima che la canzone esploda in un thriller di synth, chitarre e batteria, e avanzi a scossoni fino al termine. “No Barrier Fun” affianca elettronica, percussioni traballanti, un carillon inquietante e una frase ripetuta di violino in un andamento che ricorda il Beck di “Odelay”. “Here Comes All The People” è ipnosi alla Fantômas, accresciuta in suspence grazie a un crescendo di archi hitchcockiano che s’insinua fra bisbigli, sussurri e monotoni accordi di chitarra e piano. In “Drip” riverberi industriali disturbano dei Massive Attack riletti dai P.I.L. di “Second Edition”, se possibile ancor più mesti e funerei. “Scarecrow on a Killer Slant” è un dissestato assalto techno – hardcore, fra Primus, Ministry e Butthole Surfers. La nenia di “I Still Can See An Outside World” si arresta di colpo per deflagrare in un altro bombardamento schizoide, che chiama in causa Patton ancora una volta. “Proud Evolution”, probabilmente il picco massimo della depressione psichica dell’album, fonde Orbital, Chemical Brothers e P.I.L. per quello che è il rave più sconsolato e nichilista della storia: a muoversi attraverso opache onde sonore trasmesse da batteria e sintetizzatore c’è ormai solo un branco di zombie. “Drop Dead” è un’altra ballad sfiancata e catalettica che innesta dissonanze mutuate dai Black Flag più sperimentali su di un tono complessivo che richiama i Butthole Surfers più sfilacciati. Il post – punk ibridato con il garage simil Gories di “The Overachievers” serve da alleggerimento prima dell’epitaffio funebre di “Goodnight Everything”, sinfonia per trombone, chitarra sferragliante, disturbi elettronici e canto terminale.

Dovrebbe essere questa la naturale conclusione per un lavoro del genere, invece i Liars un poco d’ironia l’hanno conservata e piazzano come numero di chiusura “Too Much, Too Much”, etereo shoegaze che frulla fra synth celestiali e chitarrine new wave, mente Angus ripete fino alla fine la frase “I am dead”. Si tratta dello sberleffo posto in chiusura a quello che si candida ad essere uno dei possibili dischi dell’anno. “Sisterworld” è il capolavoro dei Liars.

Stefano Masnaghetti

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