Evidentemente non bastava più il black’n’roll dei Carpathian Forest e dei Darkthrone; neppure bastava il ritorno al passato pre – black che questi ultimi hanno inaugurato con i loro ultimi album; così come gli esperimenti densi di groove degli ultimi Satyricon andavano comunque oltrepassati; e si potrebbe continuare con una pletora di altri gruppi.
No, i norvegesi Kvelertak, qui al loro disco di debutto, hanno deciso di osare ancor di più. Così nel giro di 11 canzoni, per una durata complessiva di 48 minuti, allestiscono un ibrido sonico per certi versi sconcertante. Persino difficile da descrivere a parole. Iniziamo a dire che la base della loro musica è un robusto e veloce black’n’roll dove forte è la componente ‘ortodossa’: i richiami ai Darkthrone ‘classici’ e ad altre band di true norwegian black metal si sprecano. Accanto a questo, però, i Nostri sovrappongono una buona dose di hardcore di ultima generazione: non a caso il produttore del disco è Kurt Ballou degli imprescindibili Converge; il suo tocco, anche a livello stilistico, si nota eccome. Ma questo non basta. La componente propriamente rock è ampia e variegata, attingendo a piene mani dallo scan rock contemporaneo come dallo street anni Ottanta, per finire con l’hard rock di chiaro stampo Seventies. L’artwork è opera di John Baizley (il suo stile è ormai riconoscibilissimo), cantante e chitarrista dei Baroness; e allora i Kvelertak pensano bene di omaggiare anche la cosiddetta New Wave Of American Heavy Metal, introducendo nei loro pezzi riff e assoli che strizzano l’occhio al metal classico e un gusto costruttivo che in alcuni episodi rasenta il progressive (un prog alcolico, sudato e quanto mai diretto, comunque).
Qualche esempio per districarsi in questo guazzabuglio? “Ulvetid”, la traccia d’apertura, incorpora gelidi riff black metal in una struttura prettamente hardcore; “Blodtørst” è un connubio di garage punk e arpeggi chitarristici Settantiani, con tanto di piano barrelhouse nel finale che ricorda gli Stooges di “I Wanna Be Your Dog”; “Sultans Of Satan” intreccia cori epici con l’hard rock e tracce di psichedelia; la più composita di tutte è però “Liktorn”, la quale esordisce con un riff à la “Transilvanian Hunger”, successivamente chiama in causa gli Zeppelin, poi muta in un brano dei Satyricon di “Volcano” (“Fuel For Hatred” il riferimento principale), torna black con tanto di cori vichinghi, e nella coda si permette persino di citare la NWOBHM nell’assolo e nel riff finale.
Un disco davvero gagliardo, insomma, che nonostante la sovrabbondanza di citazioni e stili chiamati in causa riesce a non sembrare troppo derivativo, anzi per lunghi tratti pare quasi (si può dire?)…innovativo. L’anima multiforme dei Kvelertak è ben illustrata dagli ospiti presenti, di diversissima estrazione: stiamo parlando, infatti, di Hoest dei Taake (dai quali il giovane sestetto mutua non pochi spunti) e Ryan McKenney dei Trap Them (e le parti di hardcore più violento potrebbero essere, in effetti, anche loro). Una band che si presenta come un’Idra di Lerna, ed è proprio l’enorme eterogeneità del materiale a complicare un po’ la vita ai ragazzi; è sempre difficile sintetizzare tanti stilemi diversi in un qualcosa di compiuto. Eppure i Kvelertak sanno il fatto loro e riescono nell’impresa, con poche sbavature, tanto che il loro esordio è sicuramente annoverabile fra gli highlights di quest’anno. Consigliatissimo.
Stefano Masnaghetti