In un periodo storico di album di cover come quello che stiamo vivendo, la scelta di Clapton di mischiare nuovo e vecchio materiale risulta una via di mezzo, un ibrido tra due cose agli antipodi, ma anche qualcosa di nuovo.
In effetti non stiamo parlando di un album di vecchi standard blues, ma nemmeno del classico di inediti (che comunque guardano molto indietro), ma di un omaggio ad un intero genere da parte dell’artista mainstream che, forse, l’ha rappresentato meglio negli ultimi quarant’anni. Il buon Eric ha dichiarato recentemente di non essere interessato alla nuova musica e di ritrovarsi ad ascoltare esclusivamente vecchi album: il meglio è già stato inciso e i bei tempi non torneranno più. D’altra parte, i recenti omaggi a Robert Johnson e, tornando ancora più indietro, “From The Cradle” avevano già fatto capire quale sarebbe potuta essere la vecchiaia di Slowhand: una costante ricerca delle proprie origini.
Detto ciò, “Clapton” è davvero un buon album, non solo di classe (come si suol dire in troppi casi simili a questo) ma anche perfetto nella scelta dei pezzi in scaletta, in cui tutte le composizioni sembrano uscire dalle stesse session pur appartenendo a decadi differenti e in cui la voce del guitar hero, che recentemente ha ammesso di non aver mai amato il suo tono di voce, risplende dall’inizio alla fine. Aggiungeteci ospiti di prim’ordine come il fido JJ Cale, Wynton Marsalis e Allen Toussaint ed avrete uno dei dischi dell’anno…
Luca Garrò