Carcass Surgical Steel

Carcass Surgical Steel

Ti spiego i Carcass. Perché non è facile, no. In molti li hanno dimenticati, o non li hanno mai conosciuti (tanto che ora si ritrovano ad aprire per gli Amon Amarth, *inserire insulti a piacere*). Oppure chi li conosce superficialmente può essere scettico: in fondo erano inglesi che ruttavano death metal a sfondo anatomo-patologico, sai che roba. Sì mamma, va bene. Ma c’è molto di più. Pur non essendo il death metal una loro invenzione, questi pazzi inglesi hanno pubblicato una manciata di album tutti in crescendo, in constante evoluzione, pieni di idee che sono state poi la base della musica pesante a venire. Esperimenti con accordature nuove, strutture, suoni…d’altra parte rimase fulminato anche quel grande di John Peel, se non è una garanzia questa! Mai dei fan del death metal in sé e per sé, semplicemente dei musicisti che trovavano forma massima di espressione musicale in quel genere estremo. Dal grindcore degli esordi fino al tecnico melodico di “Heartwork“, i loro album sono tappe obbligatorie della musica pesante.

E ora? Ormai in giro da diversi anni per i festival (e con ottimi risultati), quel che rimane della band decide di provare una nuova avventura su disco. Perso per motivi di salute il mitico Ken Owen e lasciato Michael Amott ai suoi Arch Enemy, la premiata ditta Walker/Steer si infila i guanti da chirurgo e si prende l’onere di condurre l’operazione, accompagnati da due nuovi ‘tirocinanti’. Fughiamo subito i dubbi: il disco è bello, gran bello. C’è dentro il loro sound classico, riff su riff che pescano da tutto l’heavy metal, in un connubio che è una via di mezzo tra i loro classici “Necroticism” e “Heartwork”. Gli strati di chitarre di Steer, il ringhio malefico di Walker, i blast beat…tene insieme il tutto un certo groove di fondo, maturato sicuramente nelle loro esperienze extra-Carcass, e che funziona a dovere.

Non è un semplice tuffo nostalgico: il disco suona bello sciolto e fresco (cioè marcio, come preferite), guidato da ragazzi che il genere l’hanno plasmato e ora ci sguazzano a piacere. Rimane però una delusione ‘filosofica’, cioè come il disco non sia l’ennesimo passo nell’evoluzione del genere, ma solo una bella ripassata. Avercene comunque di dischi così: spazza via la quasi totalità della musica estrema contemporanea e fa venire voglia di presentarsi in un obitorio armati di mannaia e trapano. Venduto.

Marco Brambilla

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