Esiste un modo di concepire la musica, poco diffuso, che appartiene alla maggior parte della buone band fuori dagli schemi logici del music business, quelle che procedono sotto la guida di artisti impenetrabili. Si tratta di una concezione per la quale è impossibile programmare una produzione regolare e in cui ogni disco è al di fuori da ogni contesto. Esiste solo l’arte, che è l’unica costante a cui il progresso ogni tanto deve ancora piegarsi. Ma poche, pochissime band riescono a preservare questa prospettiva a lungo in una carriera pluridecennale.
Fortunatamente i Counting Crows continuano ad essere impenetrabili, proprio come il loro frontman Adam Duritz, e per questo hanno pubblicato un album – solo il settimo in vent’anni di musica – che abbraccia la solita maliconia e la più genuina nostalgia in un’epoca in cui essere nostalgici è spesso un cliché fuori moda. In un mercato saturo di esperimenti e contaminazioni, provocazioni e tendenze, la formazione che nel 1993 salvò il roots rock americano dall’oblio con il meraviglioso esordio “August and Everything After” torna oggi a raccontarci cosa vuol dire essere artisti in mezzo ai prestigiatori.
“Somewhere Under Wonderland” è un disco che avrebbero potuto scrivere negli anni Novanta ma che è un termine di paragone per questo 2014. L’opener “Palisades Park” in otto minuti profila l’evoluzione di Duritz e della band. Il totale controllo del proprio operato permette di lasciare a piano e tromba un’intro di quasi un minuto e mezzo, a cui succede un’altalena di espressività che culmina nei racconti di uno dei più sensibili parolieri americani di sempre. Puro genio creativo e massima libertà che dal vivo verebbe facilmente scambiata per improvvisazione.
Nel resto del disco c’è spazio per classic rock, folk, riff elettrici e qualche ballata spaccacuore. “Dislocation” in cinque minuti riesce a riassumere tutta l’inquetudine che il rock ha espresso dalla sua prima apparizione a oggi. “Scarecrow” è la traccia più radiofonica insieme a “Earthquake Driver”, entrambe dotate di ottimi cori e ritornelli. E tra il respiro country di “Cover Up The Sun” e la toccanti chitarre acustiche della ballata “God Of Ocean Tides” il disco arriva alla sua perfetta conclusione con “Possibility Days”, il capolavoro di questo album. Un pezzo come non se ne sentivano da tempo, un ponte tra altri due apici nella discografia dei Corvi: “Colorblind” e “Round Here”. La prova di come una struggente interpretazione possa essere il motore di un brano anche su disco e non solo dal vivo.
Il caos nella mente di Adam Duritz, il suo eterno tormento e la sua condanna a non appartenere a nessuno dei luoghi che da anni racconta sono l’essenza di “Somewhere Under Wonderland”. Uno dei dischi più necessari dell’anno.
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