Pan Sonic – Gravitoni

“Gravitoni” esce quando i Pan Sonic sono, di fatto, già sciolti. Pur non escludendo future collaborazioni, sembra proprio che il duo non abbia più intenzione di continuare la sua straordinaria avventura artistica utilizzando l’ormai storica ragione sociale. Ecco quindi un album che sintetizza al meglio più di quindici anni di sperimentazioni elettroniche a 360 gradi, talmente riuscito da lasciare parecchio amaro in bocca ai fan del progetto.

Durante gli ultimi due decenni, pochi sono stati in grado di unire le nuove pulsioni minimal – techno agli ormai classici martiri sonici del primo industrial quanto Mika Vainio e Ilpo Väisänen, senza dimenticare le loro non meno fondamentali perlustrazioni nell’ambito dell’isolazionismo ambientale. Non lo dico io, lo testimoniano i fatti: pochi si son potuti permettere di lavorare sia assieme a Merzbow sia con Alan Vega (Suicide), senza dimenticare altre prestigiose collaborazioni, fra le quali è d’obbligo citare il recentissimo live “Shall I Download A Blackhole And Offer It To You” in coabitazione con un altro ‘noise maker’ d’eccezione, il giapponese Keiji Haino. Se vogliamo indicare il merito maggiore dei Pan Sonic, questo potrebbe esser individuato nell’abilità unica con cui i due finlandesi hanno saputo mediare fra la ‘cerebralità’ dell’elettronica di ultima generazione e la ‘carnalità’ del terrorismo musicale che fiorì a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta; insomma, un suono in grado di ferire la mente, ma al tempo stesso capace di straziare le carni e penetrare come una lama affilata nei punti vitali del corpo umano, come da lezione Throbbing Gristle. Pochi hanno unito dolore fisico e mentale come i Nostri.

Torniamo a “Gravitoni”, l’epitaffio funebre. Che, a costo di sembrare avventati, potrebbe esser considerato persino il loro capolavoro. In questo senso è utile paragonarlo a “Kesto”, lo smisurato cofanetto del 2004: laddove in quest’ultimo Mika e Ilpo dividevano le varie anime del loro sound – industrial, noise, techno, ambient – in 4 cd distinti, “Gravitoni” sembra una versione condensata dello stesso. E, forse, ancora più a fuoco, anche se manca quel pizzico di visionarietà che faceva di “Kesto” un’opera incommensurabile. In ogni caso è una delizia essere perforati dalle lastre metalliche che sfregiano il beat parossistico dell’apripista “Voltos Bolt”; percorrere gli antri claustrofobici di “Wanyugo”, sferzati da onde pregne di radioattività; immergersi nell’andamento circolare di “Fermi”, minimal ambient à la Alva Noto che illustra il moto delle particelle subatomiche; esser brutalizzati dal thriller white noise e dalle scariche ritmiche impazzite di “Corona”, brano dal forte retrogusto Einsturzende Neubauten; assistere al cortocircuito fra Merzbow, Aphex Twin e Maurizio Bianchi di “Trepanointi/Trepanation”, l’episodio più cruento e spietato dell’intero lavoro; rilassarsi al cospetto della sinfonia di microrumorismo isolazionista di “Väinämöisen Uni/Väinämöinen Dreams”; scrutare le campate dark ambient della lustmordiana “Hades”; applaudire, quindi, il “Pan Finale”, sei minuti che valgono sei discografie di gruppi ordinari (la coltellata noise in mezzo agli occhi prima del silenzio terminale è quasi commovente).

Quello che più rattrista di “Gravitoni” è che, al di là del suo carattere ‘sintetico’, di coagulazione fra le varie spinte creative che la band ha fatto registrare nel corso degli anni, al suo interno non mancano spunti che sarebbero potuti esser meglio sviluppati in ipotetiche opere future (cfr. il glitch mutante di “Kaksoisvinokas/Twinaskew”), che invece non ci saranno. Ci lascia quella che era ormai diventata un’istituzione dell’elettronica degli ultimi anni, e dobbiamo farcene una ragione, anche se è difficile immaginare un mondo, in special modo questo mondo, senza i Pan Sonic.

Stefano Masnaghetti

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