“Rapsodia Satanica” – Recensione di Luca Freddi
Per la seconda volta nella loro carriera, i Giardini di Mirò tornano sul luogo del delitto: il cinema. Il cinema connaturato con i commenti sonori, la musica strumentale colonna sonora di scene da vedere ad occhi chiusi, le sensazioni e le sonorità cinematiche palpeggianti nell’aria delle camerette e nelle orecchie attraverso le cuffie. Ma la settima arte è sempre stata protagonista nella loro musica. I suoni evocativi degli esordi avrebbero potuto commentare film immaginari, poi è arrivata la colonna sonora di Sangue – “La Morte Non Esiste” (2006) e poi nel 2009 la sonorizzazione de “Il Fuoco”, pellicola firmata da Giovanni Pastrone quasi un secolo fa.
A due anni dal discreto “Good Luck”, che ritrovava la forma canzone, “Rapsodia satanica” è la colonna sonora che i Giardini di Mirò hanno scritto per l’omonimo film muto di Nino Oxilia, datato 1917.
Questo sesto lavoro è il fratello de “Il Fuoco” ma non un gemello. Un’altra sonorizzazione che rispetto a quel lavoro appare più disomogenea, costituita da pezzi tanto diversi, anche distanti sonoricamente tra loro, ma che hanno il pregio di sapersi svincolare dalle rotaie indie che il gruppo di Cavriago ha cercato talvolta di inseguire negli anni precedenti.
I Giardini qui riescono a modulare varie influenze, e dopo una partenza con il loro inconfondibile sound, alternano le derive post rock sulle scie di “Godspead You Black Emperor-Explosions in the Sky”, il blues desertico con chitarre polverose e armonica vicino ai Calexico, e i suoni wave garbati ed orecchiabili.
Il disco è inteso come “suite improvvisata”, come recita la presentazione, realizzato con lo spirito di una jam session. “Rapsodia Satanica”, come “Il Fuoco”, riesce a focalizzare al meglio la cifra stilistica della band nostrana, offrendo all’ascoltatore l’approdo a una dimensione della band sicuramente più personale rispetto agli altri album.
Voto: 3.5/5
“Rapsodia Satanica” – Recensione di Cristian Ciccone
Questo disco è una colonna sonora? Anche. Nel qual caso la combinazione con le immagini rivela un effetto straniante: Alba è ingenua, vano è il suo desiderio di poter tornare ad essere giovane, bella e innamorata. Impressioni affidate al prologo, a cui la prima rapsodia risponde, con una lunga incursione post-rock. Seguono poi la terza e la settima rapsodia (la numerazione delle tracce è sempre dispari e ricorda quella de “Il Fuoco”): vien fuori la matrice folk che soggiace alle sonorità del disco, tra le più felici intuizioni dell’opera. Attraverso il filtro di abitudini e costumi sociali sepolti dal tempo – la Belle Époque – rilucono le note sofferenze di sempre. Le osserva la musica: lirica, luciferina, potentemente drammatica.
Il crescendo incede lento e costante con la rapsodia XIII. “L’ora precipita”, sino all’“attimo” della sconfinata tristezza del rimorso. Il tragico destino delle scene è accompagnato da una parte orchestrale mai didascalica, dominata dai violini, che per contrasto induce al sollievo dell’affrancamento. Sergio, amante perduto, è ora libero dall’amore disperato per la bella e dannata Alba. Quel che a lei resta è il “veleno d’amore”, che scorre dalle pulsioni dell’elettronica rapsodia XVII. L’intro è una delle parti ambient del disco, altro valentissimo registro espressivo dell’opera.
Ad un passo dalla fine Alba si vela sacerdotessa d’amore e morte, e la musica ci insinua nei suoi pensieri, nelle sue esplorazioni sensoriali. Nelle sue mute e vacue epifanie. Ché è un attimo, e non c’è forza nell’estrema, ultima vanità dei suoi gesti. La rapsodia XXI – demoniaco quel fiatare d’ottone che annuncia la decisiva venuta di Mefisto – lentamente conduce al caos della morte, evocato con un coro dalle epiche tinte noise. Il tocco di Mefisto è sublimato, alfine, nello scampanare funesto dell’epilogo. Si palesa il velo, si officia il sacrificio. Svanisce l’illusione e la gioventù che la accompagna. Scemano la vita e le precarietà fisiche che la spengono.
Al di fuori delle melanconiche immagini di Oxilia, con cui abbiamo pensato di dar voce a quest’analisi, il disco pur gode della sua intrinseca bellezza. Non c’è molto da dire, se non che il post-rock dei Giardini di Mirò nasconde naturalmente “la ruga che le solca la fronte” grazie al brillante innesto di Folk e Ambient, e le sonorità che questi generi portano con sé. C’è solo da ascoltare. E godere.
Niente può scalfire il valore assoluto di questo disco, tra le migliori uscite italiane dell’anno. Sarà casuale l’analogia con un altro Top Record segnalato quest’anno – Bologna Violenta, “Uno Bianca” – anch’essa una colonna sonora, seppur di tono e ambientazione completamente diversa? Impossibile rispondere, non resta che prenderne atto. Che vogliate scegliere il compact disc, o siate interessati al vinile rosso in edizione limitata 500 copie, inserite questo titolo nei dischi da acquistare. Giardini di Mirò, “Rapsodia Satanica”.
Voto: 4.5/5
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