The Dead Weather – Horehound

 

Jack White: 34 anni, leader dei White Stripes (una delle poche band ‘giovani’ capaci di fare la differenza), una sfilza di Grammy collezionati, milioni di dischi venduti, il prestigio di una title track per 007, già attivo con il side project The Raconteurs e tante altre collaborazioni, torna ora con un’altra nuova band. Le idee e la voglia di sicuro non mancano al musicista americano! A questo giro i compagni di viaggio sono la cantante Alison Mosshart (The Kills) il chitarrista Dean Fertita (Queens Of The Stone Age) e il bassista Jack Lawrence (The Greenhornes e The Racounters); White passa momentaneamente al suo primo amore: la batteria.

In effetti raramente la nascita di queste ‘superband’ sono viste con ottimismo: spesso si rivelano esperimenti falliti, progetti senza una direzione precisa, operazioni commerciali, band nate più che altro da capricci di primedonne. I The Dead Weather invece vincono e convincono grazie soprattutto a una coesione e un affiatamento eccezionali, il disinteresse più totale verso una produzione ‘commerciale’ (non aspettatevi un singolo facile) e…uhm…delle canzoni belle in un disco che ha senso (qualità da non sottovalutare e rara da trovare oggigiorno).
White è ovviamente la stella più grande della band, ed è chiaro come l’impronta generale del disco sia figlia delle sue ultime opere (Icky Thump dei White Stripes e il duetto con Alicia Keys per James Bond, dove già suonava la batteria): eccoci quindi in un far west gotico, una polverosa terra di confine che puzza di zolfo e alcool, dove il diavolo è donna tentatrice e il giovane protagonista non può che cadere tra le sue labbra che sanno di miele. Ce li immaginiamo i The Dead Weather, mentre registrano il debutto in una catapecchia adibita a studio e piena di strumenti vintage. Il risultato è un disco di blues rock e hard rock anni settanta cupo ma non deprimente, pieno di atmosfera ma graffiante, dai suoni retro ma fresco e pieno di idee.

Le disavventure in queste terre dimenticate da Dio sono cantate dalla brava Alison, grande interprete dai mille volti vocali: questa è capace di sussurrarvi nel orecchio con voce rotta dall’emozione e poi prendevi a calci in culo inseguendovi con una magnum mentre vi urla dietro. White è relegato a cori e qualche duetto, tenendosi per sé solo ‘I Cut Like A Buffalo’ e ‘Rocking Horse’, dove filtra e distorce la sua voce fino a renderla irriconoscibile. La varietà del disco è notevole, riuscendo poi a non divagare troppo dalla visione d’insieme. Sia la lenta salita dell’opener, dove il pezzo cresce fino all’esplosione di chitarre distorte in stile anni ’70, sia il groove pieno di negritudine dato dall’hammond in ‘Cut Like A Buffalo’ sia un brano di rock sporco e diretto come ‘Treat Me Like Your Mother’, la danza di chitarra messicana di ‘Rocking Horse’, la cover di ‘New Pony’ di Bob Dylan rifatta con riff grassi quasi stoner o la strumentale ‘3 Birds’ al limite dell’acid jazz, il cd diverte dall’inizio alla fine.

Non avrà certamente la spinta commerciale di una ‘Seven Nation Army’, ma è un disco interessante come idea, artisticamente valido, ben realizzato e che diverte permettendo di fare un viaggio pericoloso e affascinante.

Marco Brambilla

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