[Jazz-Core/Avanguardia] Zu – Carboniferous (2009)

 

Ostia – Chthonian – Carbon – Beata Viscera – Erinys – Soulympics – Axion – Mimosa Hostilis – Obsidian – Orc

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Appena si è afferrati dal muro di elettronica maligna à la Aphex Twin di “Ostia”, si capisce  immediatamente che la musica di casa Zu è mutata ancora una volta. Quello mostrato in “Carboniferous” è probabilmente il volto più oscuro, contorto, cattivo e metallico del trio romano, in grado di raggiungere mostruosi livelli di compattezza e spigolosità.

Come sempre, gli ospiti sono prestigiosi: Mike Patton, oltre a pubblicare il disco sotto i tipi della sua Ipecac, dona la voce a “Soulympics” e “Orc”, mentre King Buzzo suona la chitarra in “Chthonian”. Entrambe le prove sono eccellenti e dimostrano che queste collaborazioni non sono state fatte a casaccio, anzi si attagliano perfettamente all’atmosfera generale dell’album, che in ultima analisi è il più zorniano della loro carriera.

John Zorn, già. Sin dai loro lavori storici, “Bromio” e “Igneo”, gli Zu sono stati annoverati tra i più interessanti discepoli del sassofonista newyorkese. Non che fosse sbagliato, ma personalmente ho sempre ravvisato maggiori somiglianze con la prima ondata free jazz, quella degli anni Sessanta: più Ornette Coleman, Albert Ayler e Archie Shepp, quindi; e gli omaggi a Coltrane ed allo stesso Albert contenuti in “The Zu Side Of Chadbourne” sembrerebbero darmi ragione.

Mentre “Carboniferous”, nella sua completa eterogeneità stilistica, capace d’inglobare techno e metal, hardcore e ambient, math – rock e noise – rock, progressive e jazz, si distanzia dall’omogeneità strutturale che, tutto sommato, i suoi predecessori avevano sempre mantenuto, pur tra mille bizzarrie sonore, e si avvicina piuttosto all’idea che sottostà a molte delle prove più feroci di Zorn, ossia colpire, spaventare e massacrare l’ascoltatore utilizzando ogni mezzo disponibile.

L’obiettivo è comunque pienamente raggiunto, si tratti di condensare Shellac e Pantera in un unico pezzo (Carbon), di far cozzare Coltrane e Don Caballero fra loro (Beata Viscera), di proporsi in torrenziali tour de force jazz – core (“Erinys”, tutto sommato il brano più radicato nel loro vecchio stile), oppure di citare i Big Black e di alienarli ulteriormente in un calderone ritmico nero pece di meshugghiana memoria: questo accade in “Chthonian”, miglior composizione del disco.

Ma ogni traccia ha un suo perché e una sua specifica funzione, e nessuna risulta essere inutile riempitivo. Su tutte, poi, grava una cappa di rabbia, sconforto e ansia, di nevrastenia impossibile da controllare, il che fa di “Carboniferous” il capolavoro degli Zu, nonché ideale colonna sonora dei tempi orribili che stiamo vivendo.

Stefano Masnaghetti

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