Milioni di ascoltatori in tutto il mondo erano in attesa, da ormai diversi anni, del “terzo vero album” dei Linkin Park. O del quarto, perchè tra “Minutes To Midnight”, “A Thousand Suns” e “Living Things” uno a scelta lo salvano sempre tutti. Sì perchè dopo “Hydrid Theory” e “Meteora” il mondo è rimasto col fiato sospeso per capire fin dove potesse arrivare questa band statunitense che ha portato il nu metal e il crossover a livelli di diffusione da capogiro. Ma adesso che con la sesta fatica discografica è arrivato anche il terzo innegabile capolavoro, chi rimarrà a remare contro?
“The Hunting Party” è probabilmente l’album più feroce della discografia, ma anche il più maturo. Si comincia in medias res con “Keys to the Kingdom”, un brano fulminante che lascia alla distortissima voce di Chester Bennington – violento come non mai – il compito di dare il primo scossone all’ascoltatore. Non c’è tempo di chiedersi se effettivamente le promesse della formazione di Los Angeles siano state mantenute, perchè la risposta arriva lapidaria con la pesantissima “All For Nothing”: i Linkin Park hanno preso quel dannato Rock che tutti chiamavano a gran voce e l’hanno messo su disco, aggiungendo qualche nuova e affascinante venatura punk. “Guilty All The Same” ha avuto tutto il tempo di essere assimilata da quando è stata scelta come primo singolo, eppure seguendo a ruota le prime due tracce sembra funzionare persino meglio, con un ritornello estremamente efficace che regala i primi momenti anthemici di “The Hunting Party”. Per il resto l’andazzo è questo: riff incalzanti e talvolta grezzi, la batteria di Rob Bourdon che è un rullo compressore e i vocals perfettamente equilibrati tra il growl di Chester e le strofe rap di Mike Shinoda. Il brano più veloce del lotto è senza dubbio “War”, di stampo punk hardcore, che in poco più di due minuti chiarisce ulteriormente qual è stato il polo di attrazione che più di ogni altro li ha allontanati dall’electro-alternative pop degli ultimi anni. Procedendo con l’ascolto la voce di Chester si presta ad ogni possibile sfumatura, cominciando in “Wastelands” ad assumere i primi toni intermedi per poi aderire perfettamente all’unica semi-ballata del disco, “Final Masquerade”, che grazie ai suoi cori e alle tematiche vagamente romantiche riesce a non far mancare neanche il pezzo da riproduzione in loop.
Il momento meno entusiasmante arriva con “Until It’s Gone” – forse il brano meno elaborato e più radiofonico del disco – che scandisce meccanicamente versi ripetitivi e privi di spessore, pur inserendosi con precisione all’interno della tracklist. Spetta invece a “Rebellion” il premio per l’episodio più riuscito. C’è davvero tutto: riff aggressivi, percussioni galoppanti e ritornello da hit con posto fisso in setlist; il tutto reso ancora più esplosivo dalla chitarra di Daron Malakian, il cui featuring risulta essere il più influente del disco, con buona pace dell’illustre e poco incisivo Tom Morello. Ma è “Mark the Graves” a sorprendere più di ogni altra canzone, grazie alla magistrale contrapposizione tra la chitarra heavy e il cantato delle strofe dalla linee più morbide, nel perfetto incontro tra le varie attitudini del sestetto.
Ci voleva “The Hunting Party” per correggere la tendenza, da “mi piacciono i Linkin Park dei primi album” a “mi piacciono i Linkin Park“. Una smisurata prova di forza, in cui emergono tutte le doti dei singoli elementi, e in cui al più ispirato songwriting della carriera si affianca una rinnovata voglia di porsi come carnivori ai vertici della catena alimentare. Li abbiamo accusati di non essere più rock? Abbiamo preteso che qualcuno li facesse incazzare? La risposta è arrivata, forte e chiara. La si trova nei ritmi letali dell’album, nei testi che riflettono la violenza e la rabbia espresse da voce e strumenti: è l’idea che questa, per tutti noi, sia una battaglia.
[youtube OCy5461BtTg nolink]