Hermann dicono fosse un manoscritto di un ingegnere, Fulgenzio Innocenzi, uomo interessante morto su una baleniera. In questo manoscritto, dicono, si parla dell’uomo, inteso ovviamente come essere umano. Paolo Benvegnù dice di essere entrato in contatto con tale opera quasi per caso, nel paese nativo di Innocenzi. E ha deciso di scriverne un disco. Un disco che parla dell’esperienza umana a parole sue e per metafore, tante metafore. Riducendo la storia umana ad una narrazione di ossimori, di contrasti, di ombre che guardano la luce e viceversa.
A questo punto è bene dirlo: il disco gli è venuto bene, anzi, gran bene, forse il migliore della sua carriera. “Hermann” inaugura il nuovo percorso artistico di Paolo Benvegnù, quello che segue la sua cosiddetta “educazione sentimentale”. Cosa cambia? Sostanzialmente poco, perché la classe resta quella, la capacità di scrivere brani incisivi, belli, equilibrati e mai superficiali anche. Cambia un po’ la sintassi. Benvegnù si cimenta con linguaggi diversi dal soave minimalismo rock a cui ci aveva abituati. Si contamina, si trasforma, pur rimanendo fortissimamente sé stesso, abilità propria dei grandi, questa. Qualcuno lo chiama “stile”.
Ecco allora che aperture orchestrali cedono il passo a intrecci di chitarre con sintetizzatori e fascinazioni acustiche restando sempre in equilibrio perfetto. Sorreggendo sempre il testo, senza mai lasciarlo andare, senza mai lasciarlo solo, cullandolo quando serve, agitandolo quando è il caso, inseguendolo o anticipandolo all’occorrenza.
Come tutti i dischi molto intelligenti, anche Hermann ha bisogno di essere ascoltato più e più volte per essere compreso e apprezzato fino in fondo, fatto questo che lo rende meno di facile presa del pur ottimo “Le Labbra”. Per fortuna è sufficiente non aver paura. E premere play. Fino a consumare il disco.
Stefano Di Noi