I Periphery stanno diventando probabilmente la progressive metal band migliore di ogni tempo. Nessuno prima di loro era riuscito a essere credibile nel attingere a piene mani da djent, classic metal, emocore, metalcore, prog rock e pop puro, costruendosi una carriera che, nel giro di tre album, è oramai diventata una delle più importanti al mondo in termini di metallo contemporaneo.
Inutile soffermarsi sulle capacità esecutive del sestetto: musicisti di primo livello che non hanno paura a mettere al fuoco una quantità di materiale che, se ascoltato distrattamente, potrà sembrare ai più eccessivamente ridondante. La facilità con cui i Nostri riescono a rendere fruibile e dirette le sonorità -core ha dell’incredibile (ascoltatevi i ritornelli della titletrack “Alpha” e di “Heavy Heart”, roba da top ten di RTL); allo stesso modo le bordate di “MK Ultra”, della seconda parte di “Psychosphere” e le escursioni in territori estremi (vedere sotto), mettono in mostra le disumane capacità vocali di uno Spencer Sotelo sempre più leader e incontenibile interprete delle evoluzioni stilistiche dei compagni.
Nella seconda parte (“Omega”) le coordinate cambiano poco: si parte fortissimo con “The Bad Thing” ma è l’arpeggio della stupenda “Priestess” a segnalare che, per quanto possibile, in questi quaranta minuti si oserà (e si pesterà nel complesso) ancora di più. Ed è questa la carta vincente dei Periphery, il voler sempre e comunque andare avanti, provare nuove soluzioni, spingere i limiti del proprio sound senza temere di snaturarsi e far incazzare chi li voleva ancorati a stilemi per definizione già vecchi dopo il primo disco.
“Graveless” ed “Hell Below” in questo senso sono un vaffanculo grande come un palazzo a queste teorie, risultando tremendamente pesanti e violente. La seconda in particolare abbassa le accordature a un livello insopportabile ed è probabilmente il momento più opprimente del platter, fino all’excursus jazzato che torna a far respirare. Le rimanenti sono le due tracce più ambiziose del lotto: la lunghissima “Omega” (quasi dodici minuti) richiama sul finale il ritornello di “Alpha”, “Stranger Things” è l’ultimo rollercoaster emozionale per l’ugola di Sotelo.
Se “Omega” sia più heavy di “Alpha”, se i chorus e le melodie migliori siano contenute nella prima parte, se il concept su rinascita e ricerca del vero io sia stato messo efficacemente in musica, sono discussioni che lascio a chi deciderà di godersi più volte i due dischelli booklet alla mano. Per ora mi limito a promuovere e consigliare a chiunque l’approccio con questa band clamorosa, oramai pronta al definitivo grande salto. Lo ammetto: fino a qualche anno fa non avevo concesso la giusta dose di attenzione alle composizioni di Misha Mansoor e soci. Il livello di concentrazione richiesto è elevato, ma quanto ritorna in termini di soddisfazione e appagamento è più che sufficiente a giustificarlo. Fuoriclasse assoluti.
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