2008. Cosa aspettarsi dal post rock oggi? Discorsi fatti e strafatti. Sono passati praticamente 10 anni e la fase evolutiva si è spenta lasciando molti cloni immobili nel panorama mondiale.
Ma i Mogwai sono i Mogwai. Anche dopo 10 anni di carriera. Sono sempre lì. I migliori. A conti fatti. Sono durati nel tempo. Hanno regalato via via un suono poco caduco alle mode sbandierate dai media. E hanno costantemente sviluppato un loro suono. E vanno avanti.
Per l’ultimo disco è meglio parlare di un ritorno al futuro. Lasciate da parte sperimentazioni, le introduzioni di voci filtrate e il cantato, l’album ci riporta in pieno periodo “Come on die young”. Niente cambi di suono radicale, quindi. Ma un disco che rimette carne al fuoco. Anzi sentimenti al fuoco. I fasti del loro suono, quello di qualità.
Ecco quindi lunghe suite interamente strumentali, che riescono a toccare apici ancora molto alti. Basta ascoltare l’apertura di “I am Jim Morrison, I’m dead”. Lirici, toccanti. Un suono consolidato. Una bravura compositiva per dilatazioni, elementi e tempi.
Riecco il classico suono-architettura-Mogwai, che ha una sensibilità inimitabile. Quella che colpisce.
Dopo l’apertura arriva il fuoco di paglia di “Batcat”, pezzo-altro che rinverdisce l’amore per il metallo sferragliante. Poi vengono inanellati una doppietta di buoni colpi in cui le chitarre costruiscono melodie azzeccate in odor di indie rock anni 90.
Poi la band scozzese mette la vestaglia più romantica. E si immerge nei paesaggi quieti per terminare con una tripletta che abbraccia l’ascoltatore in atmosfere ovattate, circolari, sempre più pregne di pathos fino al brano che chiude il disco che rilascia il massimo dell’elettricità compatta ed esplosiva.
Luca Freddi