Orphaned Land – The Neverending Way Of ORwarriOR

 

Mabool (2004) è stato uno dei dischi più importanti degli anni zero. Un lavoro capace di mettere in mostra la capacità del gruppo israeliano di esasperare il concetto di progressive inteso come miscuglio di tendenze musicali diverse, riuscendo contemporaneamente a comporre brani scorrevoli e lontani da estetismi leziosi e barocchismi fini a sé stessi.

The Neverending Way Of ORwarriOR è la storia del Guerriero della Luce (appunto “or” in ebraico) e del suo percorso interiore ed esteriore che lo porterà a lottare contro l’oscurità. Del resto questo è il topos ricorrente in tutti i loro lavori e anche in questo caso non mancano di certo i riferimenti ai dischi precedenti.

Com’era prevedibile, ORWarriOR non è un passo evolutivo forte nel sound del gruppo come fu per Mabool, piuttosto si pone in continuità con il lavoro precedente, ne migliora il tiro, recupera l’energia del passato remoto e la coniuga al meglio con la propensione progressiva dell’ultimo periodo, adottando però un approccio decisamente più cinematografico. La musica ricalca
infatti alla perfezione il caleidoscopio di atmosfere, umori e sentimenti della storia narrata e dà l’idea di essere un unico elemento in divenire più che una serie di canzoni.

Gli aspetti che colpiscono immediatamente sono la compattezza e l’assoluto equilibrio fra le tante influenze che da sempre fanno parte della proposta musicale di questi artisti. La simbiosi fra musica etnica ed elettrica, oriente e occidente, strumenti acustici (anche in questo caso davvero tanti) e non, violenza e delicatezza, è portata a un livello che il gruppo mai era riuscito a raggiungere. Il merito va anche della produzione di Steve Wilson capace di migliorare la già alta qualità dei suoni raggiunta da Mabool, riuscendo ad amalgamare ancora meglio le specificità timbriche dei tanti strumenti adottati (archi, diversi flauti, oud, chitarre di vario tipo e persino uno sciofar).

Tornando un attimo a Parlare dell’approccio cinematografico, non si può che tributare un omaggio a Kobi Fahri e alla sua prestazione vocale. Khobi è un interprete di razza capace di adottare una grandissima varietà di soluzioni, approcci e timbriche diverse per meglio adeguarsi alla necessità del momento, passando dal growl più feroce della sua carriera (sentitelo su Codework: Uprising) a delicate e intime melodie, da vocalizzi in puro stile mediorientale ai duetti con Shlomit Levi (ospite anche in questo lavoro e con uno spazio a disposizione maggiore rispetto al passato), il tutto con più naturalezza ed equilibrio di quanto fatto su Mabool.

Diversi i pezzi forti del disco, fra questi possiamo citare Sapari, una revisione di un canto yemenita del 1500, New Jerusalem, brano emozionante con preponderanza di strumenti acustici in cui gli OL sembrano riscoprire la forma canzone, la mini suite The Path (divisa in due parti), un autentico caleidoscopio di emozioni in cui riemergono anche le radici Death Metal del gruppo (soprattutto nella seconda parte sono evidenti i riferimenti a Sahara e il riff finale ricorderà a tutti il mai abbastanza compianto Chuck Schuldiner), la già citata, aggressivissima e sorprendente, Codeword: Uprising, o la scoppiettante Barakah in cui fa capolino anche del flamenco. Ovviamente questo senza nulla togliere al resto del disco che vi lascerà spesso senza fiato.

Un lavoro davvero “denso” (e lungo), da assimilare con tanta calma e che si potrà gustare come si deve solamente dopo diversi ascolti. Siamo solo a gennaio ma questo 2010 già ci ha regalato la prima irrinunciabile perla.

Stefano Di Noi

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