Escludendo mostri sacri come Bob Dylan e Neil Young, appartenenti fra l’altro a una generazione precedente, è innegabile che oggi il miglior interprete di ‘americana’, ossia l’insieme della roots music statunitense (rock’n’roll, country, blues, folk, etc.), sia proprio Mark Lanegan. Di questo l’ex Screaming Trees ne aveva già dato prova con i suoi capolavori solisti, che tuttavia mantenevano un certo legame con le pulsioni hard rock già esplorate con la sua vecchia band. Poi però è arrivata la più imprevedibile delle collaborazioni, quella con Isobel Campbell, un tempo voce e violoncello prestati al baroque pop degli scozzesi Belle And Sebastian. Sulla carta un azzardo. Nella realtà dei fatti, una scommessa vinta, tant’è vero che “Hawk” è il loro terzo album, e probabilmente è anche il più riuscito.
Si tratta di un disco devoto alla tradizione musicale a stelle e strisce tanto quanto il suo predecessore “Sunday At Devil Dirt” (2008), se non di più. Non a caso le due cover scelte per l’occasione sono entrambe canzoni di Townes Van Zandt, uno che di ‘radici’ se ne intendeva parecchio, e precisamente “Snake Song” e “No Place To Fall”: nell’ultima però Isobel duetta con il giovane cantante folk Willy Mason, lasciando riposare per un attimo Mark; così farà anche nell’alt country di “Cool Water”.
Detto questo, in “Hawk” è la personalità di Lanegan ad emergere più chiaramente. Suo è lo spirito che informa la maggior parte delle composizioni, quella melodia ruvida ed oscura che è stata in grado di rivitalizzare sonorità vecchie di decenni. Sua è l’attenzione verso certi tratti del folk e del blues. Non fraintendetemi però. La partnership con la Campbell continua ad essere profonda e indispensabile: l’alchimia fra i due ha ormai raggiunto punte di virtuosismo, e senza il timbro languido e levigato della cantante non solo non sarebbe stato possibile creare raffinate ballad quali “We Die And See Beauty Reign” e la stupenda “To Hell & Back Again”, ma sarebbe mancata a Lanegan la propria ‘antitesi’. Ed è proprio grazie a questo scontro dialettico che le canzoni della coppia si elevano al di sopra della media.
Nel complesso l’opera può esser vista come un grande affresco in chiaroscuro di buona parte della storia musicale americana: c’è il blues rock sulfureo di “You Won’t Let Me Down Again” (con James Iha, ex Smashing Pumpkins, alla chitarra) e quello selvaggio di “Get Behind Me”, nella vena di “Subterranean Homesick Blues” di Dylan (sembra di risentire quel ‘wild mercury sound’ che il cantautore di Duluth voleva creare); il country – folk gentile di “Time Of The Season” e quello incrociato col gospel di “Lately”; l’incredibile title – track, strumentale rhythm and blues che affoga John Lee Hooker nell’acido. Ci sono anche un paio di esperimenti: “Come Undone”, ai confini del trip – hop e molto simile ad alcune cose dei Portishead di “Dummy”, e “Eyes Of Green”, che rasenta il folk irlandese. Quest’ultimo è forse l’unico pezzo non riuscito di “Hawk”, che per il resto mostra davvero pochi punti deboli e si candida ad essere ricordato nelle playlist di fine anno. La strana coppia continua a stupire.
Stefano Masnaghetti