Soulsavers The Light The Dead See

Mettiamo caso che voi non conosciate i Soulsavers, vi propongo un piccolo gioco. Iniziate l’ascolto del loro ultimo lavoro “The Light The Dead See” lasciandovi cullare dalla prima traccia strumentale, ok? Bene. Procedete verso “In The Morning” lasciate trascorrere i primi 50 secondi di brano strumentale tra archi e organi, bene la vostra reazione ora dovrebbe essere più o meno questa: “Ma….ma… è proprio lui!?” Sì! È proprio lui! Questa volta ad accompagnare l’intera opera del duo britannico è la voce inconfondibile di Dave Gahan. Quello che si chiama valore aggiunto ad un’opera già di per sé di altissimo livello. Quella di Gahan è solo l’ultima delle collaborazioni eccellenti che questo particolare progetto è riuscito a collezionare negli anni. Il risultato è di una fattura invidiabile. L’amalgama tra liriche, musica e voce è quanto mai azzeccata. Ammetto di avere un debole artistico particolarmente pronunciato per Dave Gahan ma questo, come detto in precedenza, è solo un valore aggiunto che non toglie nulla, anzi accresce le qualità del prodotto.

A seconda delle vostre provenienze musicali potreste trovare più o meno facile questo disco che non ha certo il pregio di eccellere in luminosità, è un album molto cupo anzi nel quale spesso sono gli archi a farla da padrone negli arrangiamenti, dove la voce ha un ruolo da protagonista e non poteva essere altrimenti. Scordatevi i Depeche Mode o quanto meno i loro primi lavori ma non la loro anima (come detto l’impronta vocale è determinante). A partire dai testi fino agli arrangiamenti e alle infinite sfumature delle melodie vocali, traspare forte un sentimento di “messa a nudo” e chi conosce la storia del frontman dei Depeche Mode sa di cosa sto parlando. In quello che appare un lavoro monocorde ad un primo ascolto, sono visibili diverse sfaccettature. Il colore di base è sempre piuttosto dark ma i toni si allontano e si avvicinano a seconda dei brani, per formare un universo di suoni e sfumature in grado di trasmettere all’ascoltatore una costellazione di sentimenti.

Prendiamo ad esempio la traccia strumentale di apertura, atmosfere da colonna sonora un respiro ampio e scuro con qualche accenno al trip hop dei Portishead. La seconda traccia, quella che ci presenta finalmente la voce protagonista è un naturale proseguimento dove sono sempre gli archi a farla da padrone insieme ad un pianoforte che rimarca la ritmica del brano fino a sfociare in un ritornello con chitarre nervose, quasi psichedeliche. Il filo conduttore è bene o male delineato, arrangiamenti importanti, strofe grevi e ritornelli che tendono ad aprire il respiro lasciando spazio alla voce urlante, con un carattere fortissimo. “Presence of God”, “Just Try” e “Gone Too Far” sono canzoni differenti ma entrambi costruiti intorno ad una chitarra acustica che regge l’intero pezzo, senza mai rinunciare ai consueti stilemi sopra citati. L’album arriva al giro di boa con “Point Sur. Pt. 1”, seconda traccia strumentale affidata nuovamente ad un’orchestrazione retta dagli archi. “I Can’t stay” riprende il discorso con un brano sicuramente tra i migliori, il ritornello è ammaliante e straziante allo stesso tempo. La chiusura non è calante, anzi. Il pezzo migliore lo troviamo proprio alla fine: “Tonight” è una droga, ricorda le ballate di Ashcroft come “Check The Meaning” ma in misura più intima ancora. L’hammond si incastra perfettamente all’interno del mondo sonoro e il pezzo risulta una vera hit struggente.

In sostanza un disco che non stravolge per originalità ma che ha il dono di collezionare 12 brani veramente ben fatti. Traspare qualità ovunque con la voce di  Gahan come ciliegina su una torta già sufficientemente guarnita.

Giuseppe Guidotti

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