Quando penso a The Knife la prima immagine che mi viene in mente è la forma dell’onda rampa o a dente di sega, pietra angolare della musica elettronica: immaginatela acuminata come la punta di un coltello e pensatela come un grosso blocco di marmo che lo scultore deve scalpellare per trarre fuori una forma non più grezza ma artisticamente definita. Olof e Karin Drejer, i due fratellini svedesi che compongono i Knife, hanno osservato e poi scolpito il loro lavoro in questi ultimi sette lunghi anni – tanto è passato dal precedente Silent Shout –, lavorando pazientemente sulle improvvisazioni, sintetizzando strumenti acustici e umanizzando quelli elettronici; usando parole altrui per rielaborare un proprio linguaggio; creando collettivi per sentirsi meno soli e cercando il fronte ignoto della musica; costruendo una musica protesa al movimento, al cambiamento: che non è possibile fruire in maniera semplice e rapida, sganciata dalle dinamiche del mainstream e con lo sguardo sempre rivolto all’orizzonte politico della loro azione, ispirata dalle proteste degli anni’ 70, dal femminismo e dal socialismo. Engagement: portato avanti con un basso profilo e una umiltà che è pura dedizione alla causa; e che non ammette compromessi.
A dircelo sono in primis i due (pseudo) singoli posti in apertura del disco (A tooth for an eye e Full of Fire, che insieme fanno ben 15 minuti), quasi fossero un avamposto territoriale con il compito militare di avvisare pacificamente lo straniero che può essere un ospite gradito se sarà in grado di accettare le regole della nascente autocrazia: fra queste non c’è solo il rifiuto dello standard dei 3 minuti e 30, simbolo di una musica fatta per essere (s)venduta e di per sé meaningless, o l’avvertimento a non tentare di fraintendere quel che viene detto attraverso i testi, perché fraintendere è impossibile.
C’è la glacialità della musica elettronica, della lama del coltello o dei ghiacci svedesi per scuotere le abitudini che ci allontanano da una oggettiva visione della realtà; per promuovere un cambiamento mentale attraverso il movimento del corpo fisico; per gettare alfine le maschere, simbolo di (passata) debolezza davanti al sistema, e affrontare vis-à-vis la realtà, magari con il supporto di amici e amanti per espandere i confini della conoscenza – e dei conoscenti (Networking).
Chiunque ascolti questo disco comprenderà presto che scuotere le nostre abitudini significa sferrare un attacco diretto alla pigra semplicità che è in noi, squarciando il velo delle illusioni, muovendosi, cadendo e poi volando, ritrovando in una nuova identità il senso del rispetto e della giustizia: potrebbe aiutare la nostra volontà di fare i conti con noi stessi – I think we can make it / But I think that we can’t / Shaking the habitual / Really took time (Without you my life would be boring); la nostra volontà di liberarci attraverso gli altri, cedendo il passo alla seduzione del ritmo e del pensiero (Wrap your arms around me); affrontare i nostri vecchi fantasmi (Old Dreams Waiting to be Realized); misurarsi con la realtà prendendosi il dovuto tempo, e comprendere che potremmo essere differenti se cercassimo di non essere più indifferenti (Raging).
Attraverso la de-strutturazione dei canoni classici che rappresentano gerarchie e conservatorismi i Knife hanno voluto de-strutturare noi stessi e coinvolgerci in un viaggio di cambiamento, maturazione e rottura verso la libertà: attraverso il ritmo, attraverso sonorità estremamente raffinate, attraverso l’esplorazione di non-luoghi desolanti e sconosciuti che giacciono in noi stessi – e si nascondono dietro l’apparente glacialità delle macchine o l’apparente semplicità degli strumenti. Quindi, allorché vi accingerete a prendere in mano questo disco, ricordate di non trattarlo come fosse un disco normale. Prendetevi il giusto tempo, che non necessariamente si misura in ore. Del resto questo è un disco destinato a contrassegnare l’ anno domini 2013, e chissà, fors’anche l’intero decennio.
Cristian Ciccone
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