Gigantesco affresco sonoro multiforme, “The Octopus” è già uscito nel dicembre dell’anno appena trascorso in formato digitale, ma solo ora raggiunge i negozi come sontuoso doppio cd (la limited edition si può fregiare di un booklet di 70 pagine). Gli Amplifier, band inglese fra le più rinomate in ambito alt rock/neo prog, ci hanno messo addirittura quattro anni prima di dare un successore a “Insider”, ma si può ben dire che sia stato tempo speso bene, tanto che la nuova opera è senz’ombra di dubbio il loro capolavoro.
Quello che riesce in “The Octopus” è il senso d’insieme. Nonostante gli input sonori siano tantissimi, e nonostante i suoi 16 pezzi per due ore esatte di durata, l’album non scade mai nella noia né appare mai disomogeneo e raffazzonato. Ogni composizione scivola nell’altra in un continuo flusso sonico privo di reali cesure, e progressivamente si è inghiottiti dall’abisso oceanico che il complesso crea con la propria musica. Questa sensazione di assorbimento all’interno di gorghi oscuri di non meglio precisata natura somiglia alle impressioni che i migliori Tool sono riusciti a suscitare in passato; e veramente gli Amplifier ne sono gli eredi più qualificati, non solo per certe soluzioni che richiamano inequivocabilmente il gruppo di Maynard Keenan (la cupezza tribale di “Fall Of The Empire”, il lirismo di “The Sick Rose”, dall’incipit spaziale – Pink Floydiano e dallo sviluppo obliquo, fra abbandono mediorientale e nevrosi più occidentali), ma soprattutto per la bravura che dimostrano nel saper svecchiare il vecchio progressive di quarant’anni fa. “Interstellar” è, infatti, basata su di una progressione ritmica che ricorda i Van Der Graaf Generator e simili artefici del rock ‘altro’ dei Settanta (King Crimson, Gente Giant, etc.), ma le linee vocali e il trattamento melodico rivelano sorprendenti attinenze con l’alternative rock contemporaneo; e “The Wave” è sì un’hard rock epico e solenne, intriso di psichedelia, ma ancora una volta adattato ai nostri giorni.
“The Octopus” potrebbe piacere a molti. Ha le qualità per soddisfare gli amanti dei Tool, ma anche chi non ha gradito la svolta un po’ manierista dei Porcupine Tree (sentite soprattutto le composizioni più ‘rilassate’ del disco, come “Oscar Night//Embryo”) e chi è appassionato dei Mars Volta e degli Oceansize potrebbe senz’altro apprezzare. È difficile riunire in un’unica dimensione progressive, acid rock, hard, alternative e digressioni space. Gli Amplifier però ci sono riusciti. Sicuramente fra i dischi più interessanti usciti negli ultimi mesi.
Stefano Masnaghetti