A volte per descrivere un disco bellissimo servono davvero poche parole, e “Ravedeath, 1972”, sesta opera del musicista canadese Tim Hecker, è uno di questi casi.
È da un decennio esatto, ossia dall’uscita del notevole “Haunt Me, Haunt Me Do It Again” (2001), che il Nostro viene celebrato fra gli sperimentatori elettronici di maggior spessore, e il nuovo album lo conferma fra i maestri del genere. L’idea di fondo è straordinaria nella sua semplicità: tutto nasce da registrazioni d’improvvisazioni organistiche effettuate in una chiesa di Reykjavík, durante l’interminabile luminosità di una giornata dell’estate islandese. Queste verranno poi processate, modificate, alterate e integrate in studio. Tutto qui. Quello che ne scaturisce, però, è un lavoro di nobiltà quasi poetica, in cui cascate di ambient dronata interagiscono con asperità noise e rotondità sinfoniche.
Per dare un’idea, è come se le 12 tracce di “Ravedeath, 1972” siano riuscite a teletrasportare lo spirito dei ‘corrieri cosmici’ tedeschi di quarant’anni fa in una diversa dimensione spazio – temporale, ovvero nell’Islanda di oggi. O forse direttamente in un universo parallelo interiore. Fatto sta che i lunghi pedali d’organo della suite “In The Fog”, divisa in tre parti, ricordano fortissimamente il Klaus Schulze di “Irrlicht” o i Tangerine Dream di “Zeit”, così come altri episodi somigliano a estasi poste in essere da ibridi sonici ricavati dalla commistione di Popol Vuh e Yellow Swans, Terry Riley e Stars Of The Lid, e poi tutto sfuma nel pianismo pulviscolare e fantasmatico della suite conclusiva “In The Air”. Cielo, terra e mare che si confondono in un magma lattiginoso, in cui trascendenza e immanenza si fondono entropicamente. È questa la cifra stilistica dell’intero disco, amalgama di serenità contemplativa e inquietudine esistenziale in continua rivoluzione, così da mostrare ora un volto ora l’altro.
Un capitolo importante per la carriera di Hecker, fra i suoi più riusciti. Trascurarlo sarebbe un delitto.
Stefano Masnaghetti