Gli Ulver sono un gruppo unico anche per la loro capacità di saper sorprendere, sempre. Persino quando un loro disco non suona del tutto nuovo o inaspettato, c’è ugualmente il particolare o il balzo creativo che ti fa capire di star ascoltando qualcosa di raro e prezioso. Ed è questo il caso di “Wars Of The Roses”, album che non segna una netta discontinuità col passato, ma che da esso sa attingere e, tramite grande creatività ed esperienza, trasformarlo nel senso di un’oltrepasso stilistico ed emotivo di sicura presa.
Fondamentalmente si tratta dell’opera più marcatamente progressiva che Garm e compagni abbiano mai composto. In estrema sintesi, potrebbe esser descritta quale ideale anello di congiunzione fra il gelido e spietato art – rock di “Blood Inside” (2005) e l’etereo e quasi astratto ambient sinfonico del precedente “Shadows Of The Sun” (2007). Ovviamente c’è molto altro, ma le componenti principali sono queste, di volta in volta deformate e stravolte tramite l’uso di una psichedelia ora aspra e dissonante ora più lieve e avvolgente, che in alcuni episodi si avvicina addirittura a una concezione quasi pop della canzone.
È questo il caso di “February MMX”, sintesi di prog e striature elettroniche che potrebbe ricordare i Radiohead alle prese con le evoluzioni degli ultimi Arcturus. Tutto sommato si tratta del brano più ‘accessibile’ del disco, insieme alla romantica elegia notturna di “Providence”, in cui il dialogo fra la voce di Garm e quella della cantante norvegese Siri Stranger ha il suo contraltare strumentale nell’interplay fra tastiere e violino, prima che sax e interpolazioni d’elettronica astrale portino tutto in una dimensione psych – prog, fino alla definitiva dissoluzione dark – ambient finale. A leggerne la descrizione non si direbbe, ma si tratta di una traccia quasi ‘orecchiabile’. Sicuramente più di “Norwegian Gothic”, pezzo ambientale squarciato da rumorismi che paiono esser stati escogitati da dei Red Crayola del ventunesimo secolo. Ci sono poi le distensioni oniriche di “Island” e l’apertura luminosa di “September IV” (brano che però, nella sua seconda parte, muta in orgiastiche contorsioni elettroniche) che stanno ad indicare una piena comprensione di Pink Floyd e derivati, fra cui i Porcupine Tree stessi, e la melodia ampia e chiara di “England”, in cui la voce del leader è il vero centro d’attrazione delle volute ambient che le galleggiano attorno.
Discorso a parte meritano i 15 minuti di “Stone Angels”, in cui Daniel O’Sullivan recita una poesia di Keith Waldrop accompagnato da evanescenti note di organo e sax che qua e là s’increspano dando vita a frammenti di free jazz, prima che le percussioni intervengano a suggellare il crescendo finale e la musica taccia prima della conclusione del recitativo. È questo l’apice di “Wars Of The Roses”, episodio che fa convivere assieme Jan Garbarek, gli ultimi Anathema e l’ultimo Tim Hecker, e che nelle sue pieghe luminose si potrebbe intendere quale paradossale capovolgimento in senso ‘positivo’ dei Sunn 0))) del folle monologo di “My Wall”.
Una grande conclusione per l’ennesimo grande disco degli Ulver. Da avere.
Stefano Masnaghetti