Terzo album per il side-solo-project di Mark Tremonti. Istruzioni o consigli per l’ascolto? Prendete il vostro lettore e sradicate il tasto/funzione di fwd che non vi servirà a una benemerita!
Questo “Dust” è adrenalina pura, energia e quanto di meglio vorrebbero sentire un fan degli Alter Bridge, uno dei Creed, uno dei Tremonti e magari uno che Tremonti manco sa chi sia (ma che abbia tanta voglia di metallo) seduti attorno allo stesso impianto ultra amplificato.
“Dust” si ascolta tutto per intero, brano dopo brano, perché non è una raccolta di scarti di “Cauterize”, come si è letto ben prima della sua uscita pianificata per il 29 aprile, né come dicono i più buonisti una sua seconda parte: è un lavoro che fin dalla prima traccia rivendica la sua identità, e se anche i pezzi sono contemporanei a quelli del suo secondo album, Tremonti dimostra di essersene allontanato sia per sonorità che per matrice di base. “Cauterize” suonava molto thrash e questo è il motivo per cui è piaciuto molto: ha dato spazio a quel lato compositivo di Tremonti che il suo primo progetto solista aveva solo presentato.
“Dust” invece fa di colpo un passo indietro ed uno avanti rispetto al suo predecessore: fa infatti assaporare tutto il peso che il buon Mark ha a livello compositivo negli AB di oggi come lo ha avuto nei Creed di ieri, e ci fa presagire il potenziale che avrà la sua influenza sui loro suoni di domani (ammesso e non concesso che i Creed diano alla luce qualcosa in futuro, mentre degli AB già si pregusta il nuovo materiale annunciato per fine anno).
Non parliamo, è bene rimarcarlo, di riciclo o furbizie evocative: la voce di Mark e il contributo di Eric Friedman (chitarre e voci), Garrett Whitlock (batteria) e Wolfgang Van Halen (basso) rendono “Dust” un progetto originale, ma la produzione di Michael Elvis Baskette (già con Tremonti, AB e Slash) ha forse fatto far pace Mark con i fantasmi del passato e con la sua controparte degli Alter Bridge, raggiungendo una sintesi di quanto uno dei migliori chitarristi metal sulla piazza possa oggi offrire al suo pubblico, quando si mette anche stabilmente dietro ad un microfono.
Ecco allora che “My Last Mistake” richiama la tremontiana “You Waste Your Time”, mentre la chitarra di “The Cage” ci ributta fin dalle prime note alle sonorità di “One Day Remains”, la title track è un vero brano AB, mentre in chiusura “Never Wrong” e “Unable To See” fanno venire la pelle d’oca a chi ha ancora nelle orecchie la voce di Scott Stapp.
Ma tutto questo sa di riduttivo, e sembra che io stia dicendo che questo sia un buon disco per i nostalgici: affatto vero! Questo è un buon disco. PUNTO. È persino un ottimo disco, perché non ha barriere a limitarlo o etichette a frenarlo. E’ qualcosa di spassionatamente consigliato a chi voglia gustarsi una decina di brani rock di medio-alto livello senza aver paura di incappare in filler o riempitivi, con la consapevolezza di potersi far scappare qualche “questa suona come…” senza però aver la tentazione di skippare.