Vola – Applause of a Distant Crowd
Anche se “Inmazes” rimane per il momento imbattibile, il secondo disco dei Vola è come un tuffo rinfrancante dopo ore di solleone. Per i danesi il progressive metal spesso e volentieri sconfina nel prog rock, regalando soluzioni forse meno originali rispetto al primo album, ma sicuramente molto catchy (“Still”). L’atmosfera di “Applause of a Distant Crowd” è decisamente positiva e frizzantina (“Ghosts”) anche se non mancano i momenti più heavy alla Meshuggah (“Smartfriend”) e la conclusione più pensosa e sognante la offre la finale “Green Screen Mother”. Un lavoro che richiede ripetuti ascolti per essere compreso (soprattutto a livello di testi), ma che alla fine, regala grandi soddisfazioni.
Behemoth – I Loved You at Your Darkest
Al netto della controversa campagna promozionale che ha preceduto “I Loved You at Your Darkest” e delle aspettative alle stelle dopo un lavoro come “The Satanist”, la nuova opera dei Behemoth è un bel disco, anche se diverso dal precedente. Con grande rammarico di chi si aspettava un “The Satanist 2” quindi, Nergal e soci riescono a cementare la propria proposta pescando da tutte le uscite della propria carriera, risultando convincenti senza essere ripetitivi. Ulteriore nota di merito la produzione meno patinata rispetto alle ultime uscite, e la voce di Darski, sempre più velenosa (che l’esperienza nel side project Me and That Man abbia contribuito?).
Polyphia – New Levels New Devils
Bravi, bravissimi i Polyphia. Per il terzo full-length la formazione originaria del Texas dà vita a un progcore vivace e variopinto, reso ancora più fresco e interessante da un feeling hip hop e da ospiti di livello (come il guitar hero contemporaneo Jason Richardson). Il pezzo meno forte del lotto è l’unico non strumentale (“So Strange”) ma complessivamente si vola molto alto, ai livelli di Plini e Chon. Ma come per questi ultimi, si rimane (purtroppo) confinati nei limiti dell’entertainment di ottimo gusto.
Beyond Creation – Algorythm
Che i Beyond Creation avessero una padronanza incredibile dei propri strumenti e dei propri mezzi si sapeva molto bene, fin da quando hanno iniziato a farsi un nome nel progressive death metal. “Algorythm” non fa che corroborare la fama dei canadesi. Tra sperimentazioni oltre la tecnica e intermezzi jazz (vedi la strumentale “Binomial Structures”), il terzo disco dei Nostri non è di certo un lavoro per tutti, ma farà la gioia di chi ama la complessità di un certo tipo di sonorità, o semplicemente di chi gode ad ascoltare gente che suona da dio.
Black Peaks – All That Divides
Tempo fa Caparezza cantava “il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista”. Vero, soprattutto se l’esordio è una bomba. Anche per i Black Peaks la prova del disco numero due era abbastanza temuta dopo l’accoglienza di “Statues”. Ma “All That Divides” dissipa ogni dubbio trasudando talento a ogni pezzo, e proponendo un progressive post-hardcore sempre maturo e incisivo, sbocciando del tutto nella conclusiva “Fate I & II”, un brano che rispecchia fedelmente la molteplice natura dei Black Peaks. Da ascoltare anche se non siete fan del genere.
Monuments – Phronesis
Tanto –core mischiato a Meshuggah e Tesseract: questa in estrema sintesi è la proposta dei Monuments, che arrivati al terzo lavoro in studio, lasciano presagire un progressivo e graduale ammorbidirsi del proprio sound. Forti della presenza del vocalist Chris Barretto (ex Periphery, tra gli altri), i Nostri rappresentano una delle formazioni più interessanti della scena, e l’evoluzione di “Phronesis”, anche se potrà lasciare scontenti i fan della prima incarnazione dei Monuments, pur non essendo ancora maturo abbastanza per il grande salto, ne è una dimostrazione. Continuiamo a tenerli d’occhio con molta attenzione.
Coheed and Cambria – Vaxis – Act 1: Unheavenly Creatures
Un ritorno atteso quello dei Coheed and Cambria, soprattutto in seguito al tanto criticato “The Color Before the Sun”. La buona notizia è che Claudio Sanchez e soci proseguiranno la saga “The Amory Wars” con un ciclo di ben cinque dischi incentrati sul personaggio di Vaxis, di cui questo nuovo full-length è appunto la prima parte. “The Unheavenly Creatures”, pur senza dire nulla di nuovo a livello musicale, prosegue sulla strada già tracciata in passato dalla prog rock band, trovando un buon equilibrio tra vena progressive e immediatezza. Un’opera pachidermica, da gustare a piccole dosi.
Hands Like Houses – Anon.
Eravamo rimasti colpiti molto positivamente da “Dissonants” (2016), e la notizia della pubblicazione di un nuovo album degli Hands Like Houses non poteva che farci piacere. Rispetto al lavoro precedente, la formazione australiana aggiunge all’ibrido tra post-hardcore, alternative, indie ed elettronica un mood decisamente “pop”, complice il passaggio alla Hopeless Records e il contributo del producer Colin Brittain. Ma nonostante la piacevolezza di base, quello che manca ad “Anon.” è un po’ di coesione in più. Le idee ci sono, e tante, devono essere organizzate solo meglio.
Ice Nine Kills – The Silver Scream
Arriva giusto in tempo per Halloween il nuovo album degli Ice Nine Kills. Tredici (ovviamente) pezzi in cui i Nostri omaggiano tutti, ma proprio tutti gli anti-eroi dell’horror, da Freddy Krueger a Jason Voorhees passando per IT, a partire dalla bellissima copertina, azzeccata con il mood e il contenuto del disco. Il sound è un metalcore (molto Avenged Sevenfold prima maniera) sporcato appena appena di pop punk di tanto in tanto. “The Silver Scream” non è un’opera trascendentale, ma è perfetta per chi si è stancato di ascoltare “Thriller” nelle solite playlist di Halloween.
Promethee – Convalescence
Rabbia e disperazione dissonante, nessuna traccia di cantato pulito, neanche nelle (poche) aperture melodiche. Per i Promethee il mondo è nero, almeno secondo questo terzo album in studio. Gli svizzeri non le mandano di certo a dire, e con un approccio che ricorda molto da vicino quello dei Loathe, danno vita a un disco metalcore/deathcore che spesso flirta con alcune soluzioni black metal. Un lavoro godibilissimo, senza essere però memorabile.
Sylar – Seasons
Sia ben chiaro, chi cerca innovazione, tecnica e voli pindarici giri ben alla larga dai Sylar. Chi invece vuole divertirsi senza troppi pensieri, troverà pane per i suoi denti con il terzo full-length della band newyorchese capitanata da Jayden Panesso, che dopo essersi fatta notare con “Help!” (2016) torna a proporre il suo rapcore/nu-metalcore che fa tanto P.O.D. e Limp Bizkit, tirando pure fuori dal cilindro il pezzone anthemico da buttare immediatamente nella playlist best of 2018 (“All Or Nothing”) e un ottimo cantato clean.
Atreyu – In Our Wake
“In Our Wake” è il secondo album degli Atreyu dopo la pausa di riflessione. In questo ultimo lavoro, i Nostri cercando di evolvere il loro consueto metalcore, da sempre croce e delizia (per i detrattori e per i fan), un vero e proprio trademark nel bene e nel male, verso soluzioni più improntate sull’alternative, l’elettronica, e un utilizzo sempre maggiore dei clean vocals. E c’è da dire che a volte, come nella title track, riescono a centrare il punto, altre volte invece (“Blind Deaf & Blind”) non convincono nell’intento. I propositi sono buoni, il disco nel complesso un po’ meno.