Alla loro terza uscita gli Young Guns portano la loro musica su un livello diverso dai precedenti. Dopo il successo in terra inglese e l’approdo sul mercato statunitense, condito dal tour promozionale del precedente “Bones”, il gruppo londinese dà alla luce un album che poco si discosta dai precedenti in quanto ad orecchiabilità in senso stretto, pur spostando il baricentro dall’alt rock al pop. Non parliamo di svolta, ma forse di transizione: un tocco in più alla produzione, che ammicca ora anche a suoni quasi dance e brit-pop. Ne esce un disco che è un bell’insieme di canzoni, le quali rendono meglio però se prese da sole piuttosto che in un ascolto continuo e completo dell’album.
Spicca la capacità della band di azzeccare dei bei cori in quasi tutte le tracce, che nel loro succedersi si distanziano dal sound rock del lavoro precedente per avvicinarsi ai dancefloor, grazie a chitarre che suonano più come un synth, perdendo quel vigore che forse le esibizioni live sapranno ripristinare.
Ma come dicevamo prima il biglietto da visita di Ones and Zeros è la sua accessibilità senza pretese: non c’è un impatto devastante, un brano più incisivo al primo ascolto, ma tanti ami buttati per far abboccare un pubblico eterogeneo. È il segno di uno sforzo atto a rendere la musica degli Young Guns forse meno memorabile ma sempre entusiasmante.
L’album alla fine non risulta monotono, non si sentono grossi riempitivi. L’apertura di “Rising Up” e “I Want Out” danno uno scossone iniziale, anche se già alla terza traccia si ha una battuta d’arresto: “Infinity” frena il tiro, mentre “Memento Mori” e “Lullaby” completano il trittico più lento.
Ci pensa poi “Speaking In Tongues” a mettere in mostra il suono più ballabile – forse figlio dell’esperienza maturata in America – e a fornire l’apertura a brani più riflessivi che conducono alla chiusura del disco, dominata dall’incalzante title track.
Un disco senza intoppi, ma senza picchi eccelsi, che fa giocare spesso con rew e skip senza cattiveria.