La morte di Ray Manzarek ci pone di fronte ad un quesito molto dibattuto negli ultimi anni: nonostante la nascita giornaliera di new big things, i cui dischi vengono regolarmente pubblicizzati dalla major di turno come il nuovo White Album, tra qualche anno non ci saranno più grandi eventi a cui assistere. Quelli che, già alla metà degli anni ottanta, venivano chiamati dinosauri dalla stampa di settore rimangono ancora gli artisti su cui si regge tutta la baracca, inutile prendersi in giro. Basta dare un’occhiata anche distratta al calendario dei concerti della prossima estate per rendersene pienamente conto.
La scomparsa del tastierista, di cui si continua a sottolineare l’importanza pari a quella di Morrison, quasi a doversene convincere, purtroppo ci mette anche nuovamente di fronte ai classici necrologi fatti di luoghi comuni, frasi recuperate in fretta da Wikipedia e banalità che offendono più che omaggiare la memoria del musicista di turno e che nel nostro paese siamo sempre bravissimi a scrivere. Sarà per quel latente buonismo legato a secoli di fiato sul collo del Vaticano, ma anche personaggi cui, fino ad un mese fa, ci si riferiva con termini quali bollito, sopravvalutato o ridicolo, finiscono per tornare supereroi una volta morti. Senza contare la sfilza di foto sui social network di addetti ai lavori insieme all’artista o i commenti tipo “meno male che ti ho visto dal vivo”, “ti ho intervistato tre volte, riposa in pace” o “quella foto con te che non ha nessun altro mi fa piangere”, in cui i protagonisti della vicenda diventiamo magicamente sempre noi. Noi che però quando ci assegnavano un’intervista con uno dei Doors ci lamentavamo del fatto di non trovare domande da fare a una vecchia scoreggia di settant’anni, noi che poi finivamo per chiedergli se aveva nostalgia degli anni sessanta. Confesso che a me facciano piangere queste cose.
Some things never change,
Some things stay the same,
Some things rearranged.
One thing I know for sure:
Your heroes always die.
(Folk Lore, Hüsker Dü)