A volte mi piace pensare alla musica come ad un immenso albero che unisce le anime, divise da infinite diramazioni ma tutte attaccate alla stessa radice che ci disseta e ci sostiene nel bene e nel male. Quando un ramo di questo immenso albero muore e cade lo sentiamo tutti, un piccolo e nuovo vuoto che ci ricorda quell’altro più grande, quello gigantesco che ci fa passare l’intera vita nel tentativo di riempirlo o perlomeno ad accettarlo come una caratteristica di noi. Quel baratro che se ci guardi dentro troppo a lungo allora esso stesso a sua volta rivolgerà l’attenzione su di te, prendendosi tutto quello che hai come un immenso pianeta collassato.
Noi, reduci dell’abbandono di Chris Cornell abbiamo vissuto la morte di Chester Bennington in uno stato di attonita rassegnazione, come quei cerbiatti sorpresi nel mezzo di una strada notturna accecati dal raggio dei fari e incapaci di muovere un solo muscolo per scostarsi dall’inevitabile. L’esercito del grunge che tanti eroi ha perduto ha subito questa ennesima sconfitta quasi come una conseguenza naturale, un normale corso degli eventi drammatico e apocalittico. Ma per gli ascoltatori più giovani è stata ben altra cosa.
Chi è cresciuto in questa nuova disgraziata epoca di un bug che alla fine non c’è stato, questa generazione senza grandi guerre ma con tanti focolai di odio sparsi per tutto il mondo, ha assaporato e inglobato la musica dei Linkin Park. Figli di quel rock che io ho amato, li considero dei coraggiosi combattenti contro questo nulla, onesti e pronti a pagarne il prezzo. Chester era portavoce e ambasciatore di questo disagio che proviene da una sgradevole sensazione di non esistenza, di non presenza all’interno della storia dell’uomo. La sua amicizia e riverenza nei confronti di Cornell derivava proprio da questo, da una vicinanza parentale di dolore che ha mosso negli anni ’90 il movimento del grunge e ora il rock contaminato che ha fatto le fortune dei Linkin Park dai tempi di “Hybrid Theory”.
Se la resa dell’icona di Seattle è stata la morte dell’idea di perfezione, della bellezza e potenza senza macchia che con gli anni era diventata il dipinto di chi naviga per una vita nella tempesta e ne esce vincitore e più forte di prima, Chester rappresenta la disperazione di capire che anche chi lotta per la sopravvivenza in una vita piena di imperfezioni e mancanze alla fine cede. Gli eroi si rivelano più deboli di quelli che contano sulla loro forza per sopravvivere.
E’ giusto piangere per un divo della musica o del cinema? A chi dice che è esagerato disperarsi per chi ha fama e successo, famiglia e figli, e butta via tutto solo perché decide che la sofferenza è troppa, cosa dobbiamo rispondere? Perché quando leggiamo la notizia rimbalzante in ogni angolo del web ci sentiamo come se la vita che abbiamo sempre vissuto fosse finita tragicamente, colpiti da crisi di panico come se non trovassimo più un modo per venirne fuori, come se quel cantante che nemmeno ascoltavamo più spesso come una volta fosse tutto quello che ci teneva ancorati a terra, attaccati a questo mistero incomprensibile che ogni giorno, un respiro dopo l’altro, ci porta a fine giornata per poi ricominciare tutto da capo quando rispunta il sole? Perché attraverso la musica queste persone diventavano qualcosa di più che semplice ammasso di carne e ossa. Diventano dei simboli, dei talismani di catarsi del dolore.
Come spiegare il rapporto simbiotico che si instaura con la musica quando sei da solo con te stesso, quando combatti contro ombre che non hanno forma, contro venti che ti spingono indietro quando cerchi con fatica di andare avanti anche se non sai esattamente dove stai andando? Servono dei fari, serve una strada segnata. Ognuno la cerca dove meglio crede e molti la trovano nelle urla, nelle chitarre, nei profili di questi ragazzi che altro non fanno che trasformare la passione di una vita e quasi inconsapevolmente diventano portavoce di una moltitudine di cui faticano a individuarne i confini. Quando una di queste strade viene spazzata via ti senti mancare. Anche se il tuo percorso è finito è sempre e comunque uno shock girarsi indietro e scoprire che il sentiero che ti ha portato dove sei era solo un’illusione. Ti senti tradito e la rabbia che ti ha aiutato nella tua crescita non può essere la stessa che può aiutarti in questo lutto, perché è il lutto di quella stessa rabbia. E’ un circolo vizioso dell’abbandono dal quale questa volta è impossibile venirne fuori, proprio perché vengono a mancare gli strumenti che il tuo idolo si è portato nella tomba.
Gli Oasis, alfieri dell’irresponsabilità a 360 gradi, ammonivano a non affidare i propri cuori ad una rock band. Li butterebbero via, dicevano. E lo fanno. Buttano via le loro vite e buttano via le nostre. Il motivo predominante che distrugge questi artisti è la dipendenza. Ed è lo stesso motivo che ci fa avere bisogno di loro e della loro musica. Siamo dipendenti, siamo dei tossici bisognosi di quella droga che quando va bene ci porta ad altezze che la nostra vita di tutti i giorni non vede e quando va male ci butta nella polvere incapaci di rialzarci.
Ma la musica è un albero e siamo tante anime che pulsano e diffondono la linfa della vita a tutti gli infiniti rami che lo compongono. Ai ragazzi disperati per la morte di Chester Bennington dico di non mollare, di continuare ad abbeverarsi di musica, continuare a esplodere la propria rabbia. La musica è comunicazione e come tale usatela, condividetela. L’unico lascito di queste rock star maledette è proprio questo, le loro canzoni. In qualche modo ce l’hanno fatta, rimangono degli eroi. Caduti, ma pur sempre eroi. Il loro dolore li ha portati via ma ha contribuito a creare le canzoni che ogni giorno ci aiutano a riempire quel collasso che ci trascina giù senza tregua. Per questo dobbiamo essere riconoscenti e in loro onore esserci per gli altri. Per chi verrà dopo di noi a germogliare in questo immenso albero della musica e della vita.
A chi interessa se un’altra luce si è spenta? A noi. A noi interessa.