Intervista ad Angelo Mora, giornalista e scrittore

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Angelo Mora fa rima con hard & heavy. Uno dei nomi maggiormente rispettati per chi è cresciuto a pane e metallo, nonchè una persona che potrebbe parlarti di musica per ore senza mai annoiarti o risultare prevedibile. Le righe che seguono, ovviamente, non sono da meno.

Con quali testate musicali cartacee/online lavori/hai lavorato?
In ordine cronologico: Psycho!, Guitar Club, Rocker, Rock Sound, Rock Star, Metal Hammer, Grindzone, Rock Hard, Inferno Rock, Mental Beat, Classic Rock. Oggi, Salad Days.

Scrivi di musica tutt’ora?
Sì.

La tua mansione principale attuale è il giornalista?
No.

Perché l’editoria tradizionale è scomparsa o è comunque in agonia da anni? È solo colpa degli editori?
Il prodotto non è più interessante né competitivo, tranne qualche eccezione (quasi sempre rivolta a un pubblico adulto). Il discorso sarebbe lungo e complesso, osservando che cosa è successo negli ultimi quindici anni: dal crollo dell’industria discografica all’avvento dei social network, passando per il declino del rock come fenomeno artistico, culturale e sociale.
In Italia alcuni editori e giornalisti sono andati a nozze con le riviste di musica – in particolare quelli che ricevevano i contributi all’editoria dello Stato. Altri invece hanno tentato la sorte, con risultati più o meno positivi. Io ho lavorato sia con persone serie e corrette, sia con cialtroni e farabutti; la professionalità non è mai stata elevatissima, in ogni caso. Quando il vento ha cominciato a soffiare in altre direzioni, ci siamo fatti trovare impreparati: lo squilibrio fra domanda (in costante calo) e offerta (spropositata e poco attraente) è diventato enorme e i costi della filiera editoriale quasi insostenibili, complice anche il calo della pubblicità.

Quanto internet ha cambiato l’editoria e in particolare modo quella musicale? Quanto credi che i social network abbiano influito nel cambiare (potenziandoli, diversificandoli o depotenziandoli) il ruolo degli stessi? Pensi che una fanpage sia allo stato attuale più o meno importante del sito stesso?
Internet ha rivoluzionato il modo di ascoltare e consumare la musica, in tutti i sensi. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del terzo millennio, si pensava che carta stampata e bit potessero convivere in armonia (anche da un punto di vista imprenditoriale). Abbiamo poi capito che il web era un mostro che stava fagocitando l’editoria tradizionale.
I social network hanno sortito un effetto positivo, demistificando il ruolo del critico musicale e riportandolo sulla Terra, e un effetto negativo, dando voce a chiunque e quindi anche a individui ignoranti, stupidi, disturbati e sociopatici.

Come convivi con la notorietà nell’ambiente e con l’essere preso come riferimento da altri colleghi per quanto fatto fino a oggi?
Sono felice se qualcuno pensa bene del mio lavoro e lo reputa una fonte di ispirazione. Non cerco altre forme di notorietà. Le stelle si esibiscono sul palco, non in tribuna stampa.

Perché secondo te c’è così tanta gente che fa, o prova a fare, il tuo stesso mestiere? C’è a tuo parere sufficiente preparazione? C’è solidarietà tra colleghi o aspiranti tali, oppure prevalgono invidie e frustrazioni?
Perché in teoria è bello, emozionante e gratificante.
Da parte dei principianti non c’è sufficiente preparazione, non c’è mai stata. Io stesso provo grosso imbarazzo per i miei primi articoli, rileggendoli ora. D’altra parte non credo negli studi specialistici in materia (anzi, invito a diffidare dei mitici corsi di giornalismo musicale). “La pratica vale più della grammatica”, paradossalmente, cercando di non fare troppi danni e imparare dagli errori.
Si tratta di un ambiente popolato da personaggi buoni e cattivi, come in qualsiasi altra professione, ma con una certa predisposizione per attrarre i casi umani. Il giornalismo italiano è una riserva naturale di figli di papà e raccomandati – a volte entrambi. Girando pochi soldi, oggi il sottomondo del giornalismo musicale fa in parte eccezione: più che il nepotismo prevalgono il provincialismo, il narcisismo e la vanità. Mi spaventano i colleghi che si prendono troppo sul serio e alimentano il proprio culto della personalità (spesso per compensare delle gravi e malcelate lacune di autostima e un’adolescenza da reietti); alcuni pensano che la gente ascolti i dischi in base alle loro recensioni e magari vada ai concerti per incontrarli. Calma, ragazzi: Lester Bangs ci guarda dall’alto e non giudica nessuno. Forse.

Quali sono i tre momenti/servizi migliori (professionalmente parlando) che hai vissuto/realizzato fino a questo momento?
1) Intervista a Lemmy dei Motörhead a Padova, 2009. Una bella chiacchierata sulla musica rock, al netto di cliché pruriginosi. Alla fine gli chiedo di scattare una foto assieme; lui risponde: “Vieni qui!”, mi abbraccia, ci fanno la foto e, infine, mi saluta dicendo che era stata una bella intervista.
2) Alcuni dei tanti servizi realizzati all’estero fra il 2005 e il 2013 assieme al fotografo Enzo Mazzeo. Interviste a volte esclusive, foto posate quasi sempre esclusive, reportage di musica e costume dai paesi stranieri, il tutto spesso autofinanziato per il solo gusto di fare bene il proprio lavoro (e divertirsi). Giornalismo quasi serio.
3) La mia prima intervista di persona. Concerto degli Exciter al Babylonia di Biella, 1997: arrivo alle cinque del pomeriggio e busso alla porta, dicendo che avrei dovuto parlare col gruppo per conto di una testata nazionale (vero, formalmente). Dopo i vari “chi cazzo sei?”, “non ne sappiamo un cazzo”, “il biglietto lo paghi comunque” ecc., arriva il tour-manager tedesco: col mio inglese da scuole superiori, lo convinco che non sono un mitomane. Da qualche parte bisognava pur cominciare…

Come vedi il mondo dell’editoria musicale online da qui a tre anni?
Migliore e sempre più autorevole, all’insegna della qualità più che della quantità. A livello di contenuti i segnali positivi non mancano e, dopo il boom di portali, siti e blog dello scorso decennio, un po’ di “selezione naturale” farebbe bene alla scena. Se poi parliamo di soldi, stipendi e lavoro nel vero senso della parola, il discorso è un altro. Ne riparliamo fra tre anni.

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