“Ma per traslocare due volte in un mese / C’è bisogno di tranquillità”. È stata una mia cara amica, l’altro giorno, a citare questi versi di Motta riferendosi alla mia situazione di semi-nomadismo a Milano. Scelte, cambiamenti, una città da cui sono partita, un’altra in cui mi sto stabilendo. Proprio per via del trasloco nel monolocale “definitivo” – che spero mi faccia venire voglia di restare – non riuscirò ad essere fra il pubblico dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, in occasione del concerto del 28 settembre di Francesco Motta. Una location speciale, la Sala Santa Cecilia, per una data speciale, a cui seguirà una lunga pausa, per scrivere o semplicemente per metabolizzare l’esponenziale crescita del cantautore toscano, che non si è mai fermato da quattro anni a questa parte.
Due album all’attivo, due Premi Tenco, palchi sempre più prestigiosi, tour in giro per l’Italia, collaborazioni internazionali e una storia d’amore incoronata da un matrimonio lo scorso 7 settembre. Un bel po’ di roba, insomma. “Non sarà una fine ma un nuovo inizio” – assicura lui. Ed io gli credo. Perché, in fondo, la sua musica mi ha sempre accompagnata in frangenti di “apparente chiusura” di alcuni capitoli della mia vita che contenevano, in potenza, molto altro. Ed è arrivata premendo sul tasto rewind, dall’ultimo album, “Vivere o morire”, al precedente, “La fine dei vent’anni”, come quando incontri qualcuno, lo conosci e, soltanto in seguito, chiedi permesso alle porte del suo passato. È successo così con Motta. Ho scelto, allora, di incamminarmi di nuovo su quel percorso, selezionando i sei brani che, secondo me, per me e per un ideale filo rosso che lega la discografia, ne delineano le tappe più significative. Sigilli impreziositi dalle sfumature del cantautorato di italianissima tradizione, dall’immediatezza dei territori più alternativi di provenienza e da influenze etniche.
Pronti? Si parte.
La fine dei vent’anni: un riferimento anagrafico. La conclusione di un’età della vita che corrisponde sì a quella più spensierata ma anche, e soprattutto forse, al passaggio all’età adulta. La necessità di prendere decisioni fra troppe incertezze e il poco tempo sull’orologio dei “grandi”. La seconda traccia dell’omonimo disco d’esordio di Motta racconta con toni naturali, febbrili, disincantati lo stato d’animo di un’intera generazione, la nostra, e un vissuto personale che unisce i versi a fotografie ancora fresche di stampa – o di click. Una domanda che mi sono sempre posta e un responso che, probabilmente, non ho il coraggio di darmi: l’imposizione di determinati limiti è frutto delle nostre valutazioni o dipende dall’influenza altrui? “Amico mio, sono anni che ti dico andiamo via. Ma c’è sempre qualcuno da salvare”. L’essere qualcuno per qualcun altro, il riflesso di un ruolo per certi aspetti vitale in momenti di identità precaria. La paura di sbagliare, di non essere capaci di restare, di non trovare parcheggio. Una concretezza disarmante snocciolata sillaba per sillaba, con ferocia e tensione fonetica pur appoggiandosi a suoni dolci e arpeggiati. Perché la dolcezza, alla fine dei vent’anni, sta nel non pensare a che cosa è cambiato ma accogliere il cambiamento, stringergli la mano e lasciarsi cullare.
Prima o poi ci passerà: la ripetizione ossessiva di percussioni e intermittenze elettroniche accompagna poche note di pianoforte e strofe dominate da una convinzione – o autoconvinzione: “prima o poi ci passerà”. Cosa deve passarci? La paura cronica di invecchiare e di dovere stare bene, in linea con l’ideale ricerca di perfezione. Prima o poi, però, ci passerà e accetteremo la nostra natura umana, talvolta sporca, debole, fragile. Accetteremo il tempo che corre nell’immagine della luna che ci insegue in fondo alla salita e che non ammette pause, riprese, sospiri. E a chi deve passare? In quel “ci” risuona un mantra generazionale e non solo. Giovani e meno giovani che osservano le rughe disegnate dagli schiaffi della mente, i colpi delle riflessioni paranoiche di tutti coloro che perseguono qualcosa di non tangibile, palpabile. Caratteristiche dell’ambizione, dei sogni e dell’arte personificate, nel video, da musicisti che della passione e del lavoro ne hanno fatto una missione. Riccardo Sinigallia, produttore dell’album; Laura Arzilli, bassista ed ex membro di una delle prime incarnazioni dei Tiromancino (e moglie di Sinigallia); Cesare Petulicchio, talentuoso batterista dei Bud Spencer Blues Explosion. Una maledizione che, fatto tutto il giro – e chissà quanti altri, in loop – riecheggia di una benedizione, nel rintocco di campane di sottofondo, e di un invito alla protezione e alla condivisione di una precisa identità: “ritroviamoci per strada / per urlare il nostro nome / con quel poco che rimane/ fra milioni di persone”.
Abbiamo vinto un’altra guerra: uno dei live di Motta che ricordo con più emozione è stato quello allo Sferisterio di Macerata, nell’estate 2018. Le luci avvolgenti dell’anfiteatro, una calda sera di fine agosto, tanta energia sprigionata su palco. La solita, mi verrebbe da dire… ma non lo potevo ancora sapere. Era il primo concerto che vedevo di Francesco e la sua band, quest’ultima elemento imprescindibile della perfetta reazione chimica. In quell’occasione, “Abbiamo vinto un’altra guerra” è stata eseguita in acustico, senza il filtro del microfono, destrutturata. La linea vocale dapprima dimessa, poi sempre più tagliente, metallica, per tratteggiare i contorni di un dondolio bellicoso, di battaglie continue in nome di un compromesso dal prezzo molto, troppo alto. Una relazione vissuta in trincea: volontà discordanti, voci strozzate nei polmoni, sensi di colpa, cicatrici non rimarginate. Ma la consapevolezza di esserne usciti, ogni volta, con lo stendardo alto di un abbraccio familiare seppur feriti, malconci e ridotti a strisciare, per non farsi vedere.
Ed è quasi come essere felice: il secondo lavoro in studio del cantautore livornese riapre il sipario sulla scena esatta con la quale si era interrotta la pièce precedente. “Abbiamo vinto un’altra guerra”, ultima testimonianza di un conflitto personale giunto al picco cruciale, si dissolve su una prospettiva del tutto differente. Stavolta Francesco, uomo e musicista, si concentra su se stesso, dopo aver analizzato ed essersi analizzato. Un’operazione per niente semplice che si dipana tra silenzi indotti e vortici sonori, percussivi, elettronici, ridondanti e ripetuti. Un notturno con luci ad intermittenza che, per un attimo, rendono quasi possibile l’orientamento. O meglio, suoni che fanno cantare, via prediletta di raccontarsi attraverso un linguaggio più maturo, meno urlato, più netto. La scelta si riduce a due possibilità, bianco o nero, fuoco o cenere, come i colori dell’artwork di “Vivere o morire”.
Vivere o morire: è l’aut aut esistenziale attorno a cui gravita la poetica dell’intero progetto. Livorno, la madre, l’adolescenza, il timore di lasciarsi andare, le confessioni più aspre, lo spettro della solitudine, un amore che si allontana a cui augurare il meglio: pagine aperte sulla propria vita la cui lettura, attraverso il timbro solenne e calibrato, diventa tanto naturale quanto maieuticamente dolorosa. Un totale mettersi a nudo che, probabilmente, non sarebbe avvenuto senza una virata decisa su determinati sentieri, abbandonandone altri. E tutto ciò arriva a presa diretta su chi ascolta, su chi si è trovato dinnanzi allo stesso bivio, sterzando da una parte o dall’altra: dalle “chiamate dall’inferno” a diciotto anni, da soli in mezzo a tanta gente. Il continuare a fare finta di niente. Innamorarsi e nascondersi per farsi ritrovare. O ritrovarsi, come nelle sere trascorse a cantare di fronte al palco, nell’agitazione per un’intervista, nella meraviglia durante un soundcheck a Palazzo Vecchio o nel folle volo diretto alle notti del Bi Nu di Berlino.
Mi parli di te: sono sempre stata affezionata all’ultima traccia dei dischi, per ascoltarla con attenzione e mettere insieme i tasselli, unirne i punti e disegnare il messaggio finale. Quando poi è una ballata – o quasi una ninna nanna, in questo caso – l’effetto emotivo è raddoppiato. “Mi parli di te” è un dolce invito al dialogo tra un figlio e un padre, chiamato con tono familiare “babbo”. Il superamento di qualsiasi barriera generazionale e il desiderio del figlio di mettersi nei panni del suo “eroe”, per un’opportunità reciproca di crescita e arricchimento. E riconoscimento. È il cantante, ora, a porgere un carrillon di violini a chi gli sta di fronte, gli fa ascoltare la sua musica, le parole dedicate a lui, perché si è sempre in tempo ad esprimere il bene provato per i nostri cari. Lo consiglia ad ogni live, Motta. E lo farà, probabilmente, anche in occasione di questa ultima data all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Immaginandone la dimensione intima, orchestrale e dalle sfumature più autenticamente cantautoriali. Ed essendo un po’ lì con il cuore… in bocca al lupo ragazzi. In bocca al lupo Francesco.