Gregg Allman, con due G. Una versione insolita del nome, tanto particolare quanto il suo modo di suonare le tastiere. A 69 anni è morto Gregg Allman nella sua casa di Savannah, in Georgia: uno dei luoghi principi di quel southern rock contro cui tutti siamo andati ad impattare nella nostra formazione musicale, che ci abbia conquistati o meno. Gregg Allman lo abbiamo conosciuto tutti ma prima di metterlo a fuoco c’è voluto tempo, visto che il fondatore degli Allman Brothers è fortemente legato a quel periodo d’oro del rock blues che sono stati gli anni tra Sessanta e Settanta.
Ce lo siamo un po’ dimenticato nei meandri di dischi e cambi di formazione, ma la morte di Gregg Allman ha disvelato nuovamente la potenza evocativa di un genere nato proprio grazie al suo lavoro in anni cruciali.
Mentre tramontava il pop e sul versante europeo dell’Atlantico si accendevano i distorsori di Jimmy Page, Gregg e il fratello Duane Allman scoprivano le nervature più profonde del Sud musicale degli Stati Uniti. Un sud che come tutti i sud del mondo viene considerato inferiore, ma che per i due fratelli ebbe il sapore di una rivelazione: non potevano trascendere dall’apporto blues dei neri, motore economico e culturale troppo spesso messo da parte dalla presunta supremazia della white America. Allman Brothers, perché la fantasia non è prioritaria in certi casi, misero su un sestetto di curiosi che potessero fare ponte tra radici e futuro: Gregg Allman all’organo e piano, Duane Allman alle chitarre (tra cui la slide), Dickey Betts all’altra chitarra e voce, Berry Oakley al basso, Butch Trucks alla batteria e infine Jai Johanny “Jaimoe” Johanson alle percussioni e secondo batterista, all’occorrenza.
Agli Allman Brothers bastò un disco, un live, per la precisione. At Fillmore East uscì nel 1971 e fu il primo grande successo: un album dal vivo, suonato con i controcoglioni senza risparmiare energie, sudore, talento. Rivelò al tempo stesso la grandezza e i limiti del southern rock, che non si chiamava ancora così ma al quale fu trovato in fretta e furia un nome semplice ed efficace, come quello della band che lo aveva creato.
La Allman Brothers perse il pezzo più importante, come lo avrebbe definito lo stesso Gregg, proprio quello stesso anno: Duane Allman morì in un incidente stradale a 24 anni. L’anno successivo, nel 1972, toccò al bassista Berry Oakley la stessa tragica sorte, in un incidente di moto. La Allman Brothers Band era finita lì, non si poteva fare altro. Tre dischi, successo commerciale, due tragedie troppo ravvicinate per sopportare il dolore.
Ci volle la musica per reinventarsi e Gregg Allman lo fece. Si misero di mezzo le droghe pesanti, l’alcol, il gossip del matrimonio con Cher (e un figlio, Elijah Blue, che sarebbe poi diventato musicista), un paio di tonfi di carriera, ma restava lì la certezza che far correre le dita su una tastiera fosse la risposta ad ogni problema. Nonostante la salute traballante, le nuove mode musicali, l’avvento del pop, i capelli che da biondi diventavano sempre più bianchi, Gregg Allman non aveva mai perso la sua forza monolitica di simbolo di un genere. Anche da solista, nel corso degli anni e fino alla pubblicazione di Low Country Blues nel 2011 dopo un trapianto di fegato, aveva esplorato ogni ansa di quel rock caldo, polveroso e affettuosamente ripetitivo nel suo sapore sabbioso di blues.
È morto a 69 anni Gregg Allman, forse per colpa di troppi strapazzi che aveva sempre commentato con un’alzata di spalle. Un cancro al fegato, emblema della rockstar vecchio stampo che era. La sua ex moglie Cher ha scritto su Twitter che le parole per commentare la scomparsa di un uomo così sarebbero state impossibili. Invece le abbiamo trovate.