Metallica Lou Reed Lulu: l’analisi

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La collaborazione fra Lou Reed e i Metallica potrà non piacere ai fan dell’uno o degli altri, ma l’ultima cosa di cui potrà essere accusata è quella di essere un’operazione prettamente commerciale. All’ascolto del doppio album “Lulu“, infatti, quest’illazione a priori risulta essere totalmente priva di fondamento, poiché il mastodonte sonico allestito dall’alleanza fra Reed e la band californiana risponde esclusivamente alla volontà artistica dei suoi creatori, senza che sia presente alcun ammiccamento al grande pubblico. D’altra parte stiamo parlando di due nomi ormai leggendari, che non hanno più nulla da dimostrare e che evidentemente hanno semplicemente scelto di fare quello che sentivano esser più nelle loro corde. Se a tutto questo aggiungiamo il noto eclettismo di Lou Reed, capace di mostrare personalità multiple all’interno di uno stesso album e di scrivere brani come “Perfect Day” e “Satellite Of Love” e appena tre anni dopo di pubblicare un LP progenitore del noise e dell’industrial come “Metal Machine Music“, possiamo intuire che ogni progetto nel quale c’è di mezzo l’ex Velvet Underground non può mai darsi per scontato. Così è “Lulu”; un’opera non certo semplice, in cui il Reed di “Berlin” e “New York” convive con i Metallica di “Load”, del “Black Album” e persino di “…And Justice For All”, ma nel quale la somma delle parti è ben lungi dall’esaurire gli innumerevoli spunti sui quali è costruita. Accanto ai tratti più riconoscibili dei due protagonisti, infatti, abbiamo anche numerosi passaggi in odore di doom e di stoner, riff di rock classico che seguono o precedono aperture noise e ambient, esplosioni metal affiancate da droni chitarristici e scampoli di classica contemporanea. Il mood generale è cupo, torvo e spesso disperato, con testi costruiti ad hoc per rendere l’atmosfera del dramma omonimo pre – espressionista di Frank Wedekind (in realtà ricavato da due opere distinte, “Lo Spirito della Terra” del 1895 e “Il Vaso di Pandora” del 1904). Un altro punto a favore di “Lulu” è la totale assenza di pomposi arrangiamenti sinfonico – orchestrali (chi pensava a una sorta di “S&M” parte seconda rimarrà deluso); avessero composto un LP del genere, il paragone con l’omonima opera teatrale di Alban Berg degli anni Trenta, fra i capolavori della Seconda Scuola di Vienna, avrebbe finito per vederli soccombere. Invece questa Lulu riesce nell’impresa d’essere qualcosa di radicalmente altro, non c’è nessuno sterile recupero del passato e i ‘Loutallica‘ decidono di trasporre il furore iconoclasta e l’ossessione del sesso di Wedekind in un contesto straordinariamente moderno, non tradendo affatto le loro radici. Vediamo ora più in dettaglio i dieci brani che compongono il disco.

Lou Reed Metallica Lulu Trailer

Brandenburg Gate – La traccia apripista è una delle meno impegnative. Inizia con un arpeggio di chitarra acustica sovrastato dalla voce di Reed (per tutto il resto del disco Lou farà la parte del leone nel canto, lasciando a James Hetfield lo spazio per alcuni interventi nei vari chorus e poco altro), per poi evolvere con l’attacco dell’elettrica in un mid – tempo in bilico fra classic rock e country elettrico, mentre la batteria di Lars Ulrich è molto simile a quella di “Load“. Un buon inizio, ma non così esaltante, ché il meglio deve ancora arrivare.

The View – Il primo singolo ormai lo conoscono tutti. A noi è piaciuto, sia per il testo micidiale (I want to see your suicide/I want you see you give it up/Your life of reason/I want you on the floor/And in a coffin your soul shaking), sia per l’enfasi con cui nel quasi spoken word Reed declama i versi, sia per la musica, la quale nonostante una certa linearità di fondo è in grado di riservare parecchie sorprese: dal riff iniziale lento e quasi sludge (un mix di Cathedral e Danzig) sino allo spettro degli Slayer che si presenta con l’assolo sfrigolante verso la fine, passando per un’atmosfera complessiva che richiama inequivocabilmente la Rollins Band. James entra nell’accelerazione e canta la strofa del ritornello con convinzione e cattiveria, si sente subito che è in ottima forma.

Pumping Blood – Un inizio denso di feedback porta a una ritmica stoppata giocata sul rullante, mentre Reed recita “pumping blood” incessantemente. Il pezzo cambia quando viene introdotta una parte arpeggiata di una cupezza abissale, mentre Lars si prodiga in fill di batteria che però non danno un ritmo compiuto alla canzone. Ritmo che poi s’impone in forma di mid – tempo e che quindi accelera progressivamente fino allo sfinimento. Non male come prova, iniziamo ad addentrarci nel cuore dell’album.

Mistress Dread – Una delle composizioni più veloci di “Lulu”. Spazio solo ad un organo distorto, poi ecco la partenza bruciante con un riff rapido come quello di “Dyers Eve“, il quale viene tenuto a velocità folle mentre Lou declama come sempre e il drone di organo continua imperterrito. Una traccia abbastanza ostica che inizia a svelare il lato più spietato di “Lulu”.

Iced Honey – Potrebbe essere un altro potenziale singolo, anche per la sua durata relativamente breve. Si tratta forse dell’episodio più vicino al rock classico dell’intero disco, a cantare ci pensa Reed mentre Hetfield si occupa delle backing vocals. Non c’è molto altro da segnalare, potrebbe quasi esser un pezzo tratto da un LP degli anni Settanta dell’ex Velvet Underground.

Cheat On Me – Una delle tracce più lunghe anche se non delle più esaltanti. Bella l’introduzione atmosferica, in cui a fianco dei feedback si affiancano degli archi che danno un sapore sperimentale al tutto, mentre Reed declama come di consueto. A 4:20 entra la batteria in modo piuttosto soft, quindi James canta un po’ il ritornello per poi ridare subito spazio a Lou. Intanto il mid – tempo si è fatto stabile, prima che subentri il crescendo sonoro del finale. La frase chiave è “why do I cheat on me?”, ripetuta innumerevoli volte. Nel complesso così e così, ma adesso sta per arrivare uno degli highlight dell’opera.

Frustration – Sono 8 minuti e 34 secondi fra i più intricati ed esaltanti di “Lulu”. L’introduzione è davvero rimarchevole: i feedback si dispongono quasi a lambire il noise, e con un po’ di fantasia potrebbero ricordare certe piece di classica contemporanea alla Penderecki (cfr. “Threni per le vittime di Hiroshima”); dopo un minuto i Metallica attaccano con un riff fortissimamente in odore di Black Sabbath, lento e soffocante, cui non è estraneo neppure lo stoner. A due minuti e mezzo ecco qualche fill di Lars mentre Reed delira frasi come “I want so much to hurt you/Marry me, I want you as my wife“. Una ripresa del riff iniziale porta ad un altro break malefico con qualche arpeggio a costellarlo, poi a 6:30 il pezzo riparte e si velocizza in un up – tempo il cui riff portante somiglia a quelli dei Queens Of The Stone Age. Difficile da seguire in tutte le sue sfaccettature, ma “Frustration” è uno degli esperimenti più coraggiosi dell’intera release.

Little Dog – Non male neppure questa, fra le canzoni più disperate e pessimiste del doppio album. Non presenta un vero e proprio ritmo, ondeggia in un buco nero emotivo che vede Reed sia declamare sia sussurrare il testo, mentre qualche feedback qua e là ne sottolinea l’atmosfera rarefatta e il mood depresso. Nonostante la disperazione serpeggiante si tratta del brano più ‘lieve‘ del disco, quasi che volessero far respirare l’ascoltatore prima delle due mazzate finali.

DragonAltro apice, altro episodio intricatissimo e difficilissimo da assimilare in un solo ascolto. Le distorsioni iniziali rasentano quelle di “Metal Machine Music“, mentre incombe il profilo dei Velvet Underground. Il declamato di Lou (Love’s for you is no beginning/Allucination) è una specie d’incrocio fra quello di Rollins e la follia di Julian Cope che tracimava in “My Wall” dei Sunn o))). L’ingresso di Lars conduce ad un mid – tempo sorretto da un riff alla “Black Album“, che sfocia in una specie di assolo destrutturato dal noise. Reed è ora alle prese con un vero spoken word, l’influenza della Rollins Band si percepisce anche nella base musicale. Poi a 6:30 il tempo accelera progressivamente, e un riff ripetuto ed ossessivo viene scagliato alla velocità del neutrino fino ad un altro schizzo di noise questa volta di marca Sonic Youth. Dopo oltre 10 minuti si ferma tutto e la canzone svanisce in un outro acustico. Spettacolare.

Junior’s Dad – La chiusura di “Lulu” è affidata alla traccia più lunga in assoluto (19:29), il cui testo ha fatto piangere Kirk e James. A livello puramente musicale, però, ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa in più. La composizione inizia con un paesaggio ambient alla Brian Eno, per poi virare in uno slow – tempo chiaramente debitore nei confronti di “Load” (a voler bestemmiare, potremmo parlare di arpeggio à la “Hero Of The Day“); Reed sussurra e a volte risulta impercettibile. A 2:50 arriva l’elettricità ma l’impatto non è devastante, si rimane su binari cari al già citato “Load”. Successivamente ritorna l’arpeggio iniziale e si riprende tutto daccapo. Tale successione si ripete di nuovo prima che “Junior’s Dad” termini con un feedback lungo quasi 5 minuti ma non invadente e piuttosto ‘morbido’. The End.

Come si è potuto notare, “Lulu” non è certo esente da pecche e da qualche lungaggine di troppo (in totale supera gli 87 minuti di durata…). Ma quello che ci fa spendere elogi per un’operazione del genere è la percezione della sua totale ‘buonafede‘, nel senso che sia Reed sia i Four Horsemen se ne sono fregati di dare in pasto al music biz un semplice ‘prodotto’ vendibile, per creare invece qualcosa che sentivano profondamente e che andava a loro di fare in questo momento. Una release che probabilmente scontenterà parecchi fan (come ha già fatto “The View” su YouTube), ma che per una volta mette da parte i meri calcoli economici per focalizzarsi sul piacere di far musica, anche da parte di due nomi colossali del rock. Ci voleva.

Stefano Masnaghetti

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