“Scotta / Una penna quando scrive l’imprevisto / Quando scopre quello che è nascosto”canta Niccolò Fabi nel brano che apre il suo più recente lavoro in studio, “Tradizione e tradimento“. Un disco che unisce il bagliore fermo del faro delle certezze alla ricerca e alla necessità di sperimentazione per approdare a qualcosa di nuovo, distante dalle proprie corde quasi da risultare un atto di tradimento, appunto. Un disco che è risuonato fra le pareti gremite, gremitissime – sold out per dirlo in termini contemporanei – dei teatri di tutta Italia con la tournée omonima.
Sabato 25 gennaio 2020 ero tra il pubblico del Teatro Lyric di Assisi. Un biglietto acquistato poco dopo l’annuncio delle date e del mio trasferimento a Milano del settembre scorso. Con gli appuntamenti nella venue lombarda e ad Ancona (vicina al mio paese natale) già al completo, raggiungere la cittadina umbra è stata l’occasione perfetta per rivedere amici, immergersi e, allo stesso tempo, isolarsi nell’arte così autentica professata dal cantautore romano.
Le canzoni di Fabi mi hanno accompagnato e mi accompagnano da ormai molti anni. Dal 2009, per la precisione, quando – con l’album “Solo un uomo” –nei viaggi in macchina, nelle ore di riflessione in camera, nei tentativi disperati di darmi delle risposte, nel volume delle cuffie, i suoi componimenti si sono trasformati in chiavi di lettura: note, parole, silenzi, pause aderenti ad un vissuto sincero, cristallino, anche disumanamente doloroso per alcune esperienze, raccontato con delicatezza, con spontaneità in tutte le connessioni più o meno evidenti, più o meno nascoste, più o meno disarmanti.
La poltrona su cui siedo – fila C/B posto 21 – diventa una posizione privilegiata per assistere allo spettacolo che Niccolò ha disposto sul palco assieme alla sua band (fedeli accanto a lui, come sempre, Roberto Angelini e Pier Cortese) curando ogni minimo dettaglio, mai rinunciando all’essenzialità. Sugli schermi scorrono immagini che catturano la natura eterea delle emozioni per collocarla nella concretezza del reale. Le luci, prima rosse, poi verdi, poi dorate, oltre ad intersecarsi con le zone d’ombra, rischiarano figure, momenti, personaggi, strade, verbi, esclamazioni, asserzioni evocate dalla voce diretta ed efficace di Fabi.
La sua è “Una mano sugli occhi” che accarezza le palpebre per riaddormentarsi dopo un incubo. È una ricongiunzione, un’assoluzione per attraversare, senza giudizio, “I giorni dello smarrimento”, per reincarnarsi nel vagabondo che erra nel deserto, su melodie orientaleggianti, in controtempo: la salita delle dune, senza direzione, senza stella polare, nessuna manna a riempire un vuoto vertiginoso.
È la presentazione di un uomo, anzi di “Solo un uomo”, in costante osservazione, maturazione, evoluzione. Sui led, dietro la sagoma esile e riccioluta che abbraccia la chitarra acustica, appaiono le icone storiche di ogni epoca che, prima di essere tali, sono stati esseri umani nelle loro fragilità, errori, colpe, eccentricità, cadute e successi. Una sorta di esorcizzazione, soprattutto per me, che ho ascoltato questo brano intonato da chi è davvero degno di quei versi e non in qualità di parafulmine per nascondere brutture, manipolazioni, distanze altrui, come successo in un passato non troppo lontano. Perché solo guardando in faccia le proprie debolezze è possibile, in realtà, aprirsi ad un confronto, scoprirsi e riscoprirsi davvero empatici, mettersi nei panni di chi si ha intorno, accogliere l’altro e sussurrargli: “Io sono l’altro”.
È un tuffo “Nel blu” con un sottomarino insonorizzato che protegge dai suoni distorti di una dimensione esterna, troppo rumorosa, per favorire, invece, quella camera d’aria pura racchiusa nel teatro. Sondare, così, i fondali anche più impervi della propria interiorità, sprigionare l’ossigeno in potenza nelle bolle, respirare a pieni polmoni una volta in superficie. E scegliere di farlo con una persona accanto, da soli o grazie all’aiuto, magari, di un concerto, di quel concerto: “Spero che ciò che abbiamo creato possa farvi percepire una differenza di peso, uno spostamento di inclinazione”.
È una parete che divide due stanze, identiche nell’arredamento di dolore, dicotomiche nella reazione a questo. Da un lato “Ecco”, l’urlo accorato che segue alla separazione, alla perdita e al desiderio di voler, al contrario, trattenere qualcuno o qualcosa. Dall’altro, la consapevolezza, per nulla semplice, che, alla fine dei conti, “Vince chi molla”: aprire il pugno, distendere le dita, sentirsi vivi non più contando le palpitazioni ma i battiti, a ritmo regolare. Sì, perché Niccolò ci ricorda che la vita è “Una somma di piccole cose” da apprezzare e collezionare. Non tutte si controllano, non tutte sono impeccabili, non sempre è necessario distruggere o aspirare alla perfezione per “Costruire”.
È il teletrasporto, durante il set finale – quando ci si alza tutti in piedi – lungo una via del corso. Il senso di spaesamento nel non riuscire a trovare “Il negozio di antiquariato”. La riflessione sulla ricerca, la dedizione e l’attesa con l’obiettivo di tenere in mano, però, qualcosa di raro e di prezioso. Suggellare tale impegno, cantando insieme: “Perché l’argento sai si beve ma l’oro si aspetta”. È il teletrasporto, anche, per le strade di Roma, diventando gli osservatori speciali dell’ultimo dialogo di una coppia arrivata alle battute conclusive di una storia d’amore. Identificarsi in quel botta e risposta, nei tentativi di incollare nuovamente certe crepe, per comprendere che, spesso, la risoluzione più giusta, più umana è lasciarsi e dimenticarsi.
Quello che invece non si dimentica, ogni volta, è il tripudio di emozioni che esplode non appena le luci si spengono. Ciò che si percepisce è un profondo senso di arricchimento. Oltre il concerto, permane l’esperienza. È come riabbracciare un vecchio amico che, nonostante il tempo trascorso dall’ultimo incontro, capisce tutto con uno sguardo. Ascolta, consiglia, guida in una dimensione modellata dall’arte. Lui, che si fa carico del peso specifico e della responsabilità di artista, in un secondo momento cede a noi la scintilla per accendere quelle fiamme interiori che si chiamano scelte. Fiducioso, lascia che camminiamo da soli, sventolando la bandiera dell’indipendenza, condizione primaria di libertà. Dona la sua musica, le sue parole come specchi di coraggio, di resistenza alla negatività del reale per permetterci di individuare il riflesso esatto del nostro volto. Un volto che, a sipario chiuso, ancora rigato da lacrime, si illumina in un sorriso di meraviglia, di riconoscenza, di speranza.