Paris Hilton, dieci anni dall’uscita di “Paris”

paris-hilton-dieci-anni-uscitaSono già dieci anni dall’uscita di “Paris” album di debutto dell’allora onnipresente Paris Hilton. Era la torrida estate del 2006 (fu davvero torrida? Per me lo sono tutte), e nella mia mente di tredicenne il nome della Hilton era legato ad un altro filone della sua spumeggiante carriera: a scuola, complice l’avveniristica tecnologia Bluetooth il nome di Paris era ormai molto popolare tra i maschietti. Io per la cronaca quel capolavoro della cinematografia indipendente non lo vidi mai, ma non per scelta: sul mio telefono non c’era verso di inviarlo.

Il grande debutto dell’album era stato a giugno, appena in tempo per diventare un tormentone: “Stars Are Blind”, accompagnato da un videoclip sulla spiaggia. Paris fa ciò che sa fare meglio: niente si fa fotografare in pose succinte, e quando la noia ha il sopravvento inizia a strusciarsi sul muscoloso fotografo. E si strusciano, per quattro lunghi minuti. Il tutto girato in bianco e nero, che unito alle sequenze di acquatici amoreggiamenti riporta il tutto ad una dimensione citazionale, chiaro omaggio ad una “dolce vita” di felliniana memoria.

Il secondo grande videoclip è tratto da un altro singolo, “Nothing In This World”: essenzialmente un’americanata motivazionale per adolescenti, che nonostante tutto ancora oggi riguardandolo riesce a strapparmi un sorriso. Il proverbiale sfigato è vittima di bullismo ad opera di quello che immagino essere il quarterback della squadra di football (non è specificato, ma diciamo che ho una sensazione al riguardo) e dalla sua crew di ragazzi cool, finché un giorno il suo sogno ad occhi aperti, Paris Hilton, non si trasferisce accanto a lui, e lo accompagna a scuola per far cascare a terra le mandibole dell’intero corpo studentesco. Il tutto, intervallato da glitterate scritte che invitano ad osare inseguire i propri sogni. Siamo sempre nell’ambito del trash ma questo non me la sento di bocciarlo, complice più la nostalgia canaglia che le doti musicali dell’ereditiera d’America.

Come suona il resto del disco? Non bene quanto i singoli, e già lì vabbè. È pop, a tratti anche troppo. Troppop. È come quando mangi troppo cinese perché hai fatto il menù fisso e allora conviene ma alla fine ti ritrovi a odiarti, a odiare il cibo e ad odiare l’Oriente.
“Turn It Up” è il singolo che apre il disco, ma perde velocemente il poco tiro che ha, rivelandosi noioso, quasi un oscuro presagio delle tracce a seguire. “Fightin’ Over Me” aggiunge una buona dose di sapore black al tutto, grazie alla collaborazione di Fat Joe e Jadakiss, rapper dell’East Coast. “I Want You” (nulla a che vedere con Dylan) si apre con un intro che mi ricorda qualcosa che non riesco ad afferrare, forse un pezzo disco anni ’80?
La successiva “Jealousy” mi prende leggermente di più, ma solo perché mi faccio comprare facilmente dall’accenno di rock nel ritornello. “Heartbeat” è una ballad, con quella sonorità pacata e patinata che me la farebbe collocare nel decennio precedente o in quello prima ancora, se non sapessi quanto è stata incisa. “Screwed” urla di essere un singolo fin dal primo ascolto, e il suo accennato pop punk lo rendono uno dei pezzi più coinvolgenti. Non so questo quanto sia un metro affidabile per misurarne il successo, ma non ricordo di averlo mai sentito all’epoca; grazie a Wikipedia scopro però che causò una lotta legale per i diritti tra la Hilton e (rullo di tamburi) Haylie Duff, sorella maggiore dell’altra regina degli anni duemila.

Non c’è molto da dire sulle restanti tracce. “Turn You On” è una gemma di tammarraggine, perfetta unione di musica mediocre e liriche soft porno. La vera sorpresa è alla fine: una cover di “Do Ya Think I’m Sexy”, di Rod Stewart. Non è dato sapere cosa ne abbia pensato Stewart, peraltro padre di un’amica di Paris, ma è sempre divertente l’intervista al Telegraph nella quale invita con fare paterno la Hilton a smettere di drogarsi.

Com’è stato questo viaggio nel 2006? Divertente, ma più faticoso del previsto. Mentre scrivo fa caldo, e ascoltare più volte questo album non aiuta certo. Tutto sommato, facili ironie e critiche musicali a parte, “Paris” non potrebbe avere titolo migliore. Opera unica nella carriera della Hilton, riassume perfettamente quello che era il personaggio: riflettori, paparazzi, sensualità che sfocia nella volgarità. Un album costruito a tavolino per un personaggio che non è un artista, ma riesce con un certo innegabile talento a far parlare di sé.
Tutto sommato, dimenticabile, e non a caso non ha avuto seguito, se si escludono un paio di singoli con grandi artisti come Lil Wayne. Qualche sorriso però me l’ha strappato, forse non per meriti suoi ma quell’emozione che ti prende quando riascolti qualcosa che non senti da anni, ma che per un certo periodo è stato (più o meno forzatamente) una colonna sonora. Nelle parole dell’Holden Caulfiled di J.D. Salinger, «è buffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti».

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