Simone Sacco è stato per anni presenza fissa a presentazioni e concerti che contavano. Da qualche tempo ha virato con decisione sul calcio, ma sono davvero in pochi quelli che là fuori non hanno letto almeno una volta i suoi articoli di musica…
Con quali testate musicali cartacee/online lavori/hai lavorato?
Un po’ con tutte, più o meno da vent’anni. Nomi però non te ne faccio: un po’ perché non mi va di fare pubblicità, un po’ perché alcune di esse hanno già chiuso i battenti da tempo.
Scrivi di musica tutt’ora?
Sporadicamente: lo sport mi coinvolge molto di più. E lateralmente: nel senso che intervisto musicisti su argomenti che a volte non coincidono con il loro mestiere. Tipo quando parlo con loro di passione per tattoo art ed inchiostro. Però la musica continuo ad ascoltarla/studiarla con passione e voracità. Ora sto in palla con i Jefferson Starship, fai te.
La tua mansione principale attuale è il giornalista?
Se si parla di sport si, anche se preferisco la parola cronista. Per il resto mi ritengo uno scrupoloso ‘rubrichista’. I social, invece, li adopero da semplice cazzaro.
Perchè l’editoria tradizionale è scomparsa o è comunque in agonia da anni? E’ solo colpa degli editori?
La colpa è un po’ di tutti, in my humble opinion. Editori in primis – che hanno preferito continuare a parlarci di Beatles, Stones e Who saltando a piè pari l’analisi sulla contemporaneità – ma anche dell’intera filiera giornalistica (caporedattori, redattori, freelance ecc.), assolutamente “correa dell’atroce delitto”, se mi passi l’esagerazione. E dei raccomandati e dei fakers, certo, ma quelli purtroppo ci sono. E ci saranno sempre.
Quanto internet ha cambiato l’editoria e in particolare modo quella musicale? Quanto credi che i social network abbiano influito nel cambiare (potenziandoli, diversificandoli o depotenziandoli) il ruolo degli stessi? Pensi che una fanpage sia allo stato attuale più o meno importante del sito stesso?
Discorso lungo, spinoso e complesso. Senti, caro Outune, perché non organizziamo una bella tavola rotonda di tre ore con quattro/cinque colleghi e la mandiamo in streaming modello M5S? Comunque oggi tutto è social. Il resto, fortunatamente, esiste e resiste ma è come dire che la Novese (squadra della mia cittadina) gioca a pallone tutte le domeniche mentre vedi la faccia di Cristiano Ronaldo praticamente ovunque. Non so se mi spiego… Io, d’altronde, ho 40 anni e le cose le analizzo dalla mia prospettiva di “babbano”.
Come convivi con la notorietà nell’ambiente e con l’essere preso come riferimento da altri colleghi per quanto fatto fino a oggi?
Dici sul serio? Non scherziamo, please. Ma c’è qualcuno che pensa veramente queste cazzate? Poveraccio lui, in tal caso. Noi siamo solo cronisti, artigiani dell’informazione con due spade di Damocle sulle nostre teste: scrivere bene, in perfetto italiano. E riportare i fatti conditi da qualche inevitabile opinione sensata. Tutto qui: nessuno di noi è una star, nessuno può insegnare qualcosa a Jimmy Page. Lasciamo in pace Zoso. Lui sta bene, nel suo castello scozzese, a suonare la Les Paul per qualche arcano alchimista. Noi ripassiamoci il vocabolario Garzanti, piuttosto.
Perché secondo te c’è così tanta gente che fa, o prova a fare, il tuo stesso mestiere? C’è a tuo parere sufficiente preparazione? C’è solidarietà tra colleghi o aspiranti tali, oppure prevalgono invidie e frustrazioni?
Ci sta un po’ di tutto, come in ogni settore della vita. Al giorno d’oggi voler fare il giornalista ha lo stesso fascino morboso di voler lavorare nel campo del marketing: un’ambizione più che una missione. Con una sola, grande differenza: nel marketing girano ancora soldi, tanti soldi. Nel nostro bell’ambientino i denari sono evaporati a fine anni ’90 (c’è addirittura chi dice a fine anni ’80). Invidie e frustrazioni? Esclusivamente verso chi fa malissimo il più bel mestiere del mondo, alias scrivere. Se io scrivo su di un grosso media ‘Lu Rid’ al posto di Lou Reed, affermo che i Black Sabbath hanno composto ‘Highway star’ oppure inverto Liam Gallagher con suo fratello Noel, magari questi strafalcioni non fregheranno granché alla mia vecchia zia d’Australia però contemporaneamente farò perdere credibilità a tutta la categoria. La musica non è giornalismo “di serie B”: leggetevi le recensioni sul The Guardian, se vi capita, oppure il blog di Claudio Todesco. Aggiungo una cosa: se un mio collega – uno bravo e preparato tipo Luca Garrò – domani mi fa uno scoop con Axl Rose, io sono solo felice per lui. Magari la prossima volta quello scoop lo farò io: lo vedo come uno stimolo, insomma.
Quali sono i tre momenti/servizi migliori (professionalmente parlando) che hai vissuto/realizzato fino a questo momento?
Una volta ho abbracciato le sorelle Appleton (Natalie e Nicole, quelle delle All Saints) stringendole forte a me: una sul fianco destro ed una sul sinistro. Che buon profumo avevano, che momento indimenticabile! Poi ricordo bellissime interviste faccia a faccia con Ronnie James Dio, Fabrizio De Andrè, Sananda Maitreya, Moby, Johnny Marr (il più ‘low profile’ di tutti), gli Underworld, Adrian Belew ecc.; ma sono solo i primi nomi che mi saltano in mente.
Come vedi il mondo dell’editoria musicale online da qui a tre anni?
Esattamente come oggi: tanto fuoco della passione e zero soldi. Nuovi artisti sempre più trascurati (hey, pensate davvero che le major investiranno a breve sui Nirvana o sul Jeff Buckley del terzo millennio?) e una maggior cura verso il passato. Non è che se facevi punk per quattro gatti nel 1979, ora devi essere dipinto come una divinità risorta. Ok, facevi punk nel ‘79, ma Sex Pistols e Dead Kennedys avevano effettivamente qualcosa in più di te… Senti, lo so che ho parlato troppo ma posso rubarti ancora tre righe in conclusione?
Fai pure.
Prego in ginocchio, ogni singola notte, che una certa parola di dodici lettere prenda forma, soprattutto qui in Italia. E quella parola (perdonatemi il populismo e l’utopia) è meritocrazia. Ciao Outune, fai sempre il bravo, mi raccomando!