“The Beatles: Eight Days a Week – The Touring Years”, il docufilm di Ron Howard

the-beatles-eight-days-a-week-filmTogliamoci subito il dente: “The Beatles: Eight Days a Week – The Touring Years”, film documentario di Ron Howardè ottimamente realizzato e vale pienamente il prezzo del biglietto. La programmazione prevede che il film resti nelle sale per una settimana, quindi se non l’avete visto e siete in cerca di un consiglio sapete cosa fare questa sera.

Howard ha realizzato un film tutt’altro che scontato, e l’ha fatto nello stile proprio del quartetto di Liverpool: in modo semplice quanto emozionante e accattivante. Mischiando sapientemente interviste e spezzoni live dell’epoca a interviste registrate in anni successivi, complici anche ospiti speciali come Elvis Costello e Whoopi Goldberg, la storia dei primi anni dei Beatles, “gli anni in tour”, torna a prendere vita. Menzione d’onore va fatta all’eccelso lavoro tecnico che sta alle spalle del progetto: gli audio restaurati dei concerti rendono onore alla musica, e le riprese restaurate in 4K sono semplicemente paurose: in un primo momento, l’altissima qualità del video spinge quasi all’irrazionale pensiero che si tratti di una ricostruzione. I Beatles della prima fase alla quale siamo abituati sono quelli che si esibiscono all’Ed Sullivan Show in una manciata di pixel su Youtube, non certo questi quattro ragazzi che sembrano prendere vita davanti alla nostre poltrone.
Alla fine del documentario, scorre sullo schermo il concerto allo Shea Stadium, che dura trenta minuti (ma non ditelo a Rihanna, o al prossimo giro suona venti minuti e spaccia il tutto come vintage). Il restauro evidenzia tutto: l’energia dei Fab Four sul palco, ogni goccia di sudore in 4K si vede piuttosto bene, quanto l’evidente difficoltà a portare avanti l’esibizione.

Uno dei maggiori pregi del docufilm è proprio quello di guidare lo spettatore in un mondo ormai diverso dal nostro, contestualizzando ogni situazione nel suo momento storicosembra assurdo oggi pensare che in uno stadio, a un concerto, la folla sovrasti la band con le proprie urla. Che la band non possa sentirsi suonare. Che il palco sia… Minuscolo. Che lo stadio non abbia un impianto audio, e i suoni vengano fatti passare dai gracchianti altoparlanti usati per annunciare le telecronache sportive. Ma nulla accade per caso: prima dei concerti dei Beatles negli stadi (prima dei concerti di chiunque, quindi) c’è fenomeno della beatlemania. Un termine conosciuto da tutti, ma forse non necessariamente compreso appieno, soprattutto dalle generazioni cresciute con la connessione Internet: oggi il proprio folle amore per una band o un qualsiasi personaggio famoso viene sfogato online, e solo occasionalmente per strada (magari all’entrata di uno stadio), e comunque sempre entro certi limiti.
Qui invece si parla di una situazione incontenibile, ingestibile dalle forze dell’ordine e inevitabilmente pericolosa: ce lo vedete un qualsiasi gruppo rock contemporaneo richiamare 250.000 persone (sì, ogni zero è al suo posto) nel tragitto di pochi chilometri che separa l’aeroporto dalla destinazione prefigurata?

È così che, come esplicitato nella pellicola, a Epstein vengono fatte pressioni perché faccia esibire i Beatles in uno stadio: sarebbe assurdo avere 5.000 persone nel locale del concerto e altre 50.000 fuori per la strada. Anche dal punto di vista della vendita dei biglietti, ovviamente, trattandosi della principale fonte di entrate del quartetto. Peccato che i concerti negli stadi… Non esistano. Non c’è la tecnologia, e non c’è l’esperienza. La Vox realizza amplificatori più grandi ad hoc, ma non possono reggere l’impatto con l’immenso Shea Stadium. I musicisti non hanno spie, e faticano a sentire ciò che suonano. Ringo, che si trova in linea con le casse, non sente nulla: suona osservando i movimenti dei suoi compagni, per capire a quale punto del brano si trovino. C’è da dire che dalla loro avevano cinque anni di esibizioni serratissime, a salvarli da quello che sarebbe stato un suicidio (o forse no: chissà cosa sentiva il pubblico). Il palco è di dimensioni ridotte rispetto ai palchi odierni e alle dimensioni dello stadio, e il gruppo più famoso del mondo ha solo tre roadie: uno di loro racconta di come si fosse trovato a fare quel lavoro senza essere affatto preparato o specializzato. È buffo vedere con gli occhi di oggi i musicisti che salgono sul palco e si sistemano le aste, i microfoni, spostano un po’ la batteria. È allora che mi ritorna in mente il vecchio adagio: erano troppo avanti per la loro epoca. Se tornassero oggi, il mondo sarebbe pronto per accoglierli con impianti adeguati, concerti ben organizzati e quant’altro. Ma si sa: i pionieri non sono mai vissuti nel lusso.

Tecnologie a parte, focus primario del documentario è l’evoluzione umana e musicale di quattro ragazzi che sono uniti come fratelli. Si spalleggiano a vicenda, scherzano di continuo, fanno la migliore musica in circolazione. I Beatles sono una formula vincente, dentro e fuori dalle scene. Ma sono esseri umani, e anche piuttosto giovani, e dopo qualche anno quei completi che li hanno portati alla gloria iniziano a stringere. Iniziano a sembrare delle divise. E non ha senso essere i Beatles se non si può fare la propria musica ai propri termini. La prima metà della carriera è caratterizzata da routine infernali: impegni a qualsiasi ora del giorno, a volte in città diverse. Essere i Beatles 24 ore su 24. Per questo quando arriva la rivoluzione, arriva per davvero. Basta Beatles: ora è il turno della banda dei cuori solitari del Sergente Pepe. Non si tratta si seguire la nascente “moda hippie”, se non in senso trasversale: si tratta di raggiunge un nuovo livello di espressione artistica, con un maggiore focus sui testi dei brani e senza darsi limiti musicali. Sperimentando. Tracciando un solco per le generazioni a venire, dal nostro punto di vista. Mettendo una fine alle esibizioni dal vivo, sfiancanti e poco soddisfacenti, e concentrandosi sulle registrazioni in studio, ora così complesse da essere difficilmente riproducibili dal vivo (altro aspetto che oggi potrebbe essere aggirato, tra l’altro).

I titoli di coda scorrono sull’ultimo, leggendario, concerto: quello sul tetto. Sono scene viste e riviste, ma ogni volta non me ne capacito: la loro carriera è durata meno di dieci anni, ma sembrano molti di più. Saranno le barbe e i baffi, cresciuti dopo la l’abbandono dei completi, a invecchiare quei quattro ragazzi? I dischi parlano chiaro in ogni caso: nei pochi anni passati insieme, complici anche logiche discografiche differenti da quelle attuali, hanno vissuto un’intera vita musicale, fatta di evoluzioni, tanti alti e pochi bassi.

Menzione d’onore finale a un aneddoto che in tanti anni di articoli, libri, dischi e film sui Beatles non mi era mai arrivato: l’opposizione alla segregazione. Durante le esibizioni negli States, nel Sud era ancora prevista la segregazione razziale, ma i Beatles con tutta la loro semplicità e la loro forza dissero no: la loro musica era per la gente, tutta la gente. Erano anni difficili, violenti e pieni di contestazioni, e quello dei Beatles fu un importante precedente.

https://www.youtube.com/watch?v=0fFyZzqPDws

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