Alex Britti è uno di quegli artisti italiani – pochi – che nella sua carriera si è sporcato le mani suonando sui palchi di tutto il mondo. Uno di quelli che ha imparato a scontrarsi e confrontarsi con mostri sacri come Joe Cocker, Ray Charles per dirne qualcuno. Uno che ha scritto un pezzo importante della musica italiana. Il primo, a onor di memoria, a rendere fruibile il jazz e il blues ai più, travestendo i generi di mantelli pop. Eppure, brani densi di “sostituzioni” (in gergo jazz) che solo a un orecchio attento si mostrano.
Alex Britti torna con “In Nome dell’Amore- Volume 2”, un disco opposto al precedente volume 1. Un album in cui il cantautore, abitante del mondo per vissuto (verrebbe da dire), presenta il lato più soave e solare della questione. Alex la musica l’ha vissuta da quando aveva 8 anni, passando per A Better day (Si veda l’album Magic di Amii Stewart) e arrivando alla vittoria Sanremese. Ha visto il mondo discografico evolvere e solo lui, forse può aver davvero, quella visone lucida che, spesso, ci dimentichiamo di avere.
Nel tuo percorso quali sono le tappe che ti hanno segnato emotivamente maggiormente?
Il mio inizio da cantautore, ma non per i riconoscimenti, quanto per i miei traguardi personali. Quando ho vinto Sanremo avevo già 30 anni. Dopo il successo discografico mi sono trovato sul palco con Joe Cocker e con Ray Charles. Due nomi con cui sono cresciuto. Quello è stato uno switch di vita. Io funziono così.
Sono queste cose che dovrebbero caratterizzare un artista, in fondo.
È cambiato il mondo. La comunicazione, abbiamo internet in tasca. Nel 1998 internet non esisteva. Quando ero nel nord Europa, agli inizi, dovevo avere in tasca i soldi di quattro valute diverse. Dovevo avere quattro schede telefoniche, dovevo cercare una cabina telefonica per dire “ciao” a qualcuno. Oggi hai internet in tasca e anche gli artisti sono cambiati. Oggi tutti gli artisti devono essere anche manager di se stessi. Questo comporta poco spazio, talvolta all’arte. Prima le figure erano separate. Potevo stare tranquillo in casa a suonare. A scrivere e registrare, c’era una serie di persone che lavorava con me. Oggi siamo tutti un po’ factotum artisti e manager, è cambiato il modo di lavorare.
Il nuovo modo non sempre però è efficace.
Oggi, proprio perché ci sono i social, tanti artisti mettono un sacco di fatti propri in piazza. Non è un caso che talvolta, quando sta per uscire un disco, inizi a vedere gossip. Comincia un sottobosco promozionale che una volta non esisteva. Oggi si fa promozione anche in quel modo. È una modalità che, per chi ha già qualche anno come me, risulta un po’ strana
La riservatezza è una libertà di tutti ma ce ne si dimentica spesso.
La gente pensa che sia normale sapere i fatti tuoi. Io sono un personaggio pubblico ma pubbliche sono le mie canzoni, non la mia vita privata. Oggi si fa molta confusione tra artista e personaggio.
La visione distorta nasce anche dal sedersi a fare il giudice?
Gli artisti stanno sul palco, oggi si confondono le cose. Poi ala fine ci sono tanti tuttologi e si arriva a pensare che tutti gli artisti siano così. Io suono la chitarra scrivo e recentemente ho imparato a cantare le mie canzoni. Come un artigiano. Uno si dovrebbe limitare a fare il suo. Oggi si rapporta tutto ai numeri. Se noi dovessimo rapportare tutto ai numeri, allora quando vogliamo mangiare la carne buona andremmo da McDonald’s, se dovessimo guardare il fatturato. Il messaggio che uno lancia non è che qualcosa è bello, ma il bello è relativo ai numeri. Questa poca cattiva-informazione porta a gridare al miracolo in fretta salvo poi, dopo cinque anni, quell’artista non esiste più. Bisognerebbe esser più cauti nel gridare al miracolo
Foto di copertina: Giovanni Canitano