Dopo la tempesta di “Non erano fiori”, torna Coez con “Niente che non va”, un album complesso nelle sue pur semplici immagini, perché volente o nolente tocca un po’ tutti. Una sfera emotiva accesa e uno sguardo attento sono i due caratteri peculiari dell’artista romano che anche in questa occasione non disattende le aspettative.
Ti senti più “primo” o più “secondo”?
Più secondo chiaramente.
Come ci si approccia a questo nuovo lavoro? Differisce molto dai precedenti, in primis per il poco spazio dato all’amore.
Spero che ogni mio lavoro si discosti via via dai precedenti. La mia ambizione è creare qualcosa che sia bello per un motivo. L’amore è toccato ma con un approccio diverso, perché è un’altra fase ed ho un’altra età.
C’è una sorta di rabbia nei tuoi racconti? Dipingi in rima immagini molto forti, come l’andare a sbattere con la macchina in “Niente che non va”, brano che colpisce di primo acchito.
C’è sicuramente un sentimento di presa di coscienza di come sono andate le cose e che comunque alla fine non ci sia niente che non va. La copertina, tanto criticata, è stato il modo visual di mettere un espressione rilassata tra teschi e donne diavolesse. Non c’è niente che non va, malgrado i mostri che ognuno di noi serba.
Come ti definisci musicalmente? A mio avviso sei stato un precursore nel mischiare rap e cantato.
Sì. Penso di essere, senza troppa modestia, un precursore e di aver dentro da sempre questo stile. Tanti rapper italiani che fanno quel cambio di prospettiva musicale lo fanno con un occhio all’estero. Io invece arrivo dall’ascolto dei dischi di mia madre tra Vasco, Battisti, Rino Gaetano; quella musicalità l’avevo in qualche modo già assimilata da tempo. Quando parlo con i colleghi, non hanno quel tipo di amore per il cantautorato. Io non mi sono sforzato. Non saprei come definirmi se non a cavallo tra rap e pop, perché non rinnego nessuna delle due parti del mio essere.
La società moderna è una società di “Costole rotte”?
È una situazione che va avanti da sempre e sempre succederà. Di nuovo c’è il linguaggio, ma le gestualità sono le stesse di vent’anni fa, quel prendere e partire per Londra in cerca di un futuro.
Forse oggi si presta più attenzione…
Perché la rete e l’informazione arriva ovunque e in qualsiasi momento.
Forse la musica ha riscoperto il suo ruolo, quello poi degli anni settanta in cui si tendeva più a denunciare invece di raccontare solo delle belle storie d’amore.
Nel mio disco, l’aspetto più sociale è stato ben ponderato, seppur risulti più forte nell’album precedente “Non erano fiori”.
Ti aspetti che “Niente che non va” venga capito?
Lo spero. Penso di aver creato qualcosa di diverso, forse più complicato nei concetti; non ho fatto solo canzoni d’amore che risultano più semplici alla divulgazione. Penso che alla lunga verrà capito tutto. Speriamo di non finire come Van Gogh (ridendo ndr). Sono abbastanza fiducioso visti i versi diretti e terreni. Faccio riferimenti a cose molto piccole e mi piace parlare così.
“Dove finiscono le favole”?
Non lo so.
Com’è nato questo brano? C’è un rimando forte a “Mary” dei Gemelli Diversi.
In realtà non c’avevo pensato. In qualche modo, vivo “Dove finiscono le favole” come il brano in antitesi con “Non erano fiori”. Ci sono dei rapporti molto complicati tra le persone. Talvolta, le donne subiscono delle violenze psicologiche che un uomo non sopporterebbe mai e volevo mettere la luce su questo aspetto. La figura della donna viene descritta attraverso quella forza insita per cui una donna, per quanto fragile, trova quasi sempre quella forza dentro di sé per scappare e crearsi una nuova vita. Ho dovuto spingere sulle immagini; spesso per far capire quell’immagine che hai in testa devi spingere a 100.
“La rabbia dei secondi” oggi è palpabile?
Oggi più che mai.
Penso sia il brano più sociale che hai scritto
Secondo me, oltre a questo anche “Niente che non va”, seppur abbia un aspetto più intimo e psicologico.
“La rabbia dei secondi” è uno stato emotivo in cui ci si ritrova tutti.
Io penso che siamo tutti secondi. Anche se analizzi la vita di un “primo”, ti accorgi che sì, ha il primato in qualcosa, ma inevitabilmente è secondo in tutto il resto. Un secondo e un ultimo possono comunque vivere anche meglio di un primo, se ci pensi.