Un nuovo disco di inediti intitolato “Cosa siamo diventati” che suona come uno strumento di autoanalisi. Al giro di boa il secondo disco di inediti di Diodato, una confessione a cuore aperto, fotografia di un’infanzia che segna una vita oltre che, inevitabilmente, le storie di tutte le persone. A tre anni dall’ultimo album, Antonio si presenta con un nuovo piglio creativo.
Cosa siamo diventati?
Probabilmente più consapevole di molte cose. Sicuramente penso sia un album che mi rappresenti in toto. La mia è una continua messa a fuoco e ci tenevo a fare un album che rappresentasse chi sono in questo momento. C’è la consapevolezza di un vissuto. Poi, all’interno dell’album, il brano che dà il titolo al disco, racconta di un rapporto. Quando l’ho scelto come titolo del disco, volevo in qualche modo pormi o lasciar sospesa una domanda. Perché è un disco in cui metto a nudo molte cose, in un momento storico strano. Viviamo in un momento freddo, questa è la mia sensazione. Volevo rispondere con un disco che parlasse di calore, che attraversa il freddo, però volevo che comunque ci fosse una sensazione di calore finale.
È un disco autobiografico? Come arrivi a scrivere un disco autobiografico al giorno d’oggi?
La visione che ho io, è che bisogna scrivere di verità. Volevo un disco sincero e ho vissuto l’esigenza di raccontare queste esperienze vissute. È avvenuto in modo naturale. Sono stato solo attento ad esser sincero con me stesso. Quando scrivi ci sono delle trappole, probabilmente anche inconsce. Mettersi a nudo vuol dire esporre le tue fragilità. Ho cercato di togliere tutti i filtri possibili. Cercare di raccontare il vissuto in distacco.
Il tuo ultimo disco di inediti risale al 2013. Come sei cambiato in questi quattro anni?
Penso di conoscermi meglio. Utilizzo la musica per comunicare e imparare a conoscermi. Mi piace che, pur raccontando avvenimenti personali, ho la percezione che riesca ad avvicinarmi maggiormente alle persone. Ho tolto le barriere che mi difendevano e distanziavano dalle persone.
Il tuo modo di scrivere, è evidentemente diretto. Come reputi il cantautorato del 2000?
Ci sono cose interessanti. Non credo sia un momento meraviglioso per il nostro paese e per il mondo. Gli artisti reagiscono in due modi o cercano di raccontare questi anni difficili, anche attraverso la propria quotidianità, oppure con la leggerezza cercando di alleggerire la pesantezza che ci circonda. È un buon periodo cantautorale.
Nel disco ci sono tutte le tue sfumatura. Fragilità, sensi di colpa, felicità. Come si collegano nel tuo processo di scrittura del disco?
Vivo sulle montagne russe, tra introspezione e felicità. Questo si riflette nei brani che propongo tra ballad e motivi musicalmente più sporchi.
Te l’ho chiesto perché se penso a “Uomo fragile” non deve esser stato semplice.
La musica ha una funzione quasi di analisi. In “Uomo fragile” ci sono diversi sguardi che appaiono contemporaneamente, ci tenevo particolarmente e non a caso questo brano è il manifesto che apre il disco. Volevo metter in chiaro da subito all’ascoltatore, la direzione di questo disco, provando a capire le fragilità mettendole a nudo. Paradossalmente quando riesci a riconoscerle diventano anche punti di forza.
Il contrasto risiede anche negli arrangiamenti però.
La musica deve esser evocativa di ciò che dici. Per fortuna ho una band che mi permette di metter in pratica la visione musicale. La musica deve amplificare la visione.