Con un anno e mezzo di vita, il Don Diego Trio è il nuovo progetto musicale di Don Diego, classe 1975, virtuoso musicista italiano famoso per essere considerato il re italiano del rockabilly. Dopo aver raggiunto la notorietà in tutta Europa grazie ai suoi Adels, band fondata nel 1994, prima come power trio indirizzato verso un rockin’ blues di estrazione texana, poi, con gli anni, in una formazione di neo-rockabilly, nel 2014 ha posto fine a questo importante capitolo della sua carriera per dedicarsi a nuovi progetti, tra cui spicca il Don Diego Trio. Proprio con questa nuova formazione è stato pubblicato all’inizio dello scorso mese un album, intitolato “Roadhouse Stomp“.
Il Don Diego Trio è attualmente impegnato in un tour che è partito il 26 novembre da Grosseto e che proseguirà fino al 16 gennaio, dove si concluderà con la data di Friburgo, in Germania.
Per conoscere qualcosa in più su questa nuova band e sull’incredibile carriera del suo leader abbiamo scambiato due parole con Diego in persona.
Come e quando nasce il Don Diego Trio?
Il Don Diego Trio nasce il giorno dopo lo scioglimento degli Adels, quindi a giugno del 2014. Finita l’esperienza degli Adels (fine programmata, sia chiaro) il mio desiderio era mettere su una band che raccogliesse tutte le mie esperienze musicali. Quindi blues, rock and roll, country, western swing, surf e ovviamente rockabilly! Tutti insieme in un trio che potesse parlare di me.
Chi sono i membri del Trio?
Dagli Adels ho “tenuto” Sandro Pittari, col quale sono in simbiosi artistica e personale, essendo uno dei miei migliori amici e il batterista con il groove più solido col quale abbia mai suonato. A lui si è aggiunto Luca “Guizzo” Chiappara, giovanissimo contrabbassista “cittadino del mondo” (altoatesino di nascita, cresciuto a Torino e adesso residente a Palermo); Sandro lo teneva d’occhio da qualche tempo e quando me l’ha sottoposto mi ha veramente stupito per la dedizione e il talento. Con orgoglio posso dire di vantare una delle più affiatate, versatili e solide sezioni ritmiche del mondo. Senza loro io sarei sono un modesto chitarrista che prova a fare saltellare il ritmo.
Puoi parlarci dell’Ameripolitan? Quanto è importante per te?
Posso dire che è un sogno che si avvera. Qualche anno fa un cantante americano di “pseudo country”, non mi va di fare il suo nome, tanto lo disprezzo, disse “a chi interessa ascoltare il vecchio country dei miei nonni? Chi è lo fa adesso è solo una vecchia scorreggia…”. Disse proprio così! Il tumulto generato da questa stupida affermazione è stato mostruoso. Io mi sono sentito indignato, stavo ascoltando Hank Williams in quel momento. Il grande Dale Watson, cantante americano di country outlaw con un curriculum fatto di coerenza e passione, ha detto che tutti coloro che mantenevano vivo il movimento della musica tradizionale americana (rockabilly, outlaw country, honky tonk, western swing, country) dovevano riunirsi sotto uno stesso nome, Ameripolitan appunto, e creò l’annuale award dedicato a tutti coloro che suonano con questo spirito. Essere stato nominato nella categoria “rockabilly band” all’interno di questo premio internazionale per me è un riconoscimento al di sopra di tutte le mie aspettative: essere “Ameripolitan” per me significa essere riconosciuto come un culture e un amante di questo principio di base. Che vinca o meno poco importa. L’obiettivo era essere “definito” un ameripolitan artist.
Parlando invece del disco, “Roadhouse Stomp”, cosa ti ha ispirato nella sua realizzazione? Come nasce e con quali intenzioni?
“Roadhouse Stomp” nasce dalla bramosia di produrre qualcosa che ci identificasse il più possibile. Una colonna sonora per un viaggio in una landa desolata. Io sono un grande ascoltatore di musica in auto, viaggiando per la maggior parte del tempo del mio lavoro. Quindi la musica che ascolto in viaggio ha un sapore terapeutico per me; mi permette di ispirarmi, di riflettere, di svagarmi e di cantare a squarciagola. Questo disco nasce come una raccolta dei migliori ritmi che accompagnano il mio viaggio ideale. La copertina, la grafica, i suoni, ricordano ampiamente quelle raccolte, anche un po’ tamarre, da autogrill americano. Non lo nascondo!
Dall’album si capisce l’importanza che ha il viaggio per te, per voi come band. Quant’è importante e come si riesce a vivere appieno l’esperienza del viaggio su quattro ruote per mesi e mesi di tournee?
Stima, rispetto, tolleranza e grande idiozia. Unisci queste tre cose e vedrai che potrai stare con le stesse persone per mesi in spazi ristretti. Se ne manca una, è finita e inizi a sperare di lasciare questa gente in cerca di qualcosa di più familiare. Fortunatamente con Sandro, Luca e Gianluca (il nostro quarto uomo, road manager e mio amico fraterno) queste tre peculiarità sono sempre esistite, tanto da contare le ore prima di reincontrarli.
Se dovessi fare un resoconto di questi vent’anni di carriera e successi, cosa pensi di aver dato alla musica, e quanto hai ancora da imparare, anche solo in un genere che conosci alla perfezione?
Intanto mi sto sentendo un vecchio! Ahahah! Cosa ho dato alla musica? Io sono fiero di aver riportato all’attenzione certi generi in alcune zone d’Italia (dove vivo o ho vissuto), visto che erano stati dimenticati quasi totalmente. Ogni giorno credo che il divulgare sia alla base del mio mestiere. Se divulghi bene crei un mondo migliore e più ricettivo. Se divulghi bene prima o poi scopri persone nuove che finiranno per stimolarti. Non voglio essere un innovatore, non ne ho il talento. Voglio essere quasi un ambasciatore di certi generi, senza però innalzarmi a fine conoscitore. Mi toglierebbe il sorriso e l’approccio bambinesco al mio obiettivo. Una volta un fonico mi disse “non si smette di imparare finché non ti chiudono dentro una bara”, quindi ho ancora tanto da imparare, che per me vuole dire “ho ancora tanta musica da ascoltare”, e non vedo l’ora di scoprire nuove sfumature di qualcosa che non si finirà mai di conoscere alla perfezione.