Benjamin Stanford, meglio noto come Dub Fx è un personaggio unico nel suo genere. È un cantante, musicista e produttore ma nasce come beatboxer esibendosi in strada. Originario dell’Australia, vive in Italia per diversi anni, poi si trasferisce a Londra e gira per mezza Europa. Ha un modo di comporre unico, che mescola stili e strumenti. Le sue performance live però non possono passare inosservate. L’8 luglio 2015 ha suonato a Collegno per il Flowers Festival, dove ha scaldato il pubblico in apertura a Bonobo, e con l’occasione gli abbiamo fatto qualche domanda.
Hai viaggiato molto e vissuto in paesi distanti e diversi tra loro. In un tempo dove sembra che tutto sia facilmente reperibile online, cosa significa per te viaggiare e cosa è importante portarsi a casa da un viaggio?
Sinceramente è anche un po’ triste: viaggi per il mondo e noti che è tutto una copia, non ci sono più diverse culture. Ogni città è un clone di un’altra, stesse macchine, stessi negozi. Alla fine è l’esperienza, avrei potuto girare anche solo un unico paese e scoprirlo a fondo. Io ho imparato dalla gente, da come vivono, a capire che non ero pazzo. A casa mia in Australia magari non potevo confrontarmi e invece più giravo più trovavo gente come me. Idem con la musica, se a te piace quello che stai facendo allora è probabile che nel mondo ci sia altra gente a cui piace ciò che fai.
Le grandi rivoluzioni musicali spesso sono figlie di innovazioni “tecnologiche”. Dai microfoni alle distorsioni, per arrivare poi negli anni 90 alla computer music. Il tuo approccio invece è completamente trasversale, usi la voce e strumenti esistenti per creare qualcosa di completamente nuovo. Spiegaci un po’ come nasce la tua ricerca di strumenti.
Guarda, la prima volta che ho iniziato a lavorare con i loop mi sono gasato moltissimo perché era una possibilità mai esplorata prima. Fai tutto da te, crei il beat, poi metti il basso poi gli effetti. È anche bello da vedere e già sulla strada, guardando le risposte della gente, ho capito che la cosa poteva funzionare. Poi il discorso è diverso se suoni nei club o per strada o nei festival perché hai finalità diverse. In strada quello che conta non è tanto come suoni ma quanto riesci a coinvolgere la gente.
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Sempre a proposito di tecnologia e musica, non pensi che si sia arrivati un po’ troppo oltre, appiattendo il tutto, o credi ci sia ancora spazio per evoluzioni e sperimentazione di generi nuovi?
All’inizio, dopo una stagione che ero in giro, sono tornato a casa e ho fatto vedere a mio padre cosa stavo facendo, ho montato la mia pedaliera e ho iniziato coi mie loop, contentissimo. Lui mi ha guardato e mi ha detto: “cos’è sta roba? Se non canti annoi la gente”. Mi ha fatto capire che comunque è vero, la tecnologia aiuta a creare nuovi stili, aumenta le possibilità ma poi quello che conta è sempre la musica che fai, la melodia, le parole. Se un pezzo è bello voce e piano, allora vuol dire che funziona. I miei pezzi hanno un bel beat, un basso che suona la linea melodica e la voce. Questa è la loro anima. Potrebbero suonare molto più pop, quello che porto avanti io poi complica se vuoi il tutto con gli effetti eccetera, ma sono complicazioni marginali, il cuore del pezzo è sempre quello ed è ciò che importa nella musica. I computer e le tecnologie ci aiutano a creare cose nuove, non puoi pretendere che la gente ti compri se fai cose già sentite. Poi ci sono persone come gli Arcade Fire che hanno un’origine folk ma li senti suonare ed hanno un suono mai sentito prima.
Hai detto che il mondo musicale italiano è piuttosto frustrante, bada poco alla qualità ma molto alla resa, eppure i musicisti italiani sono molto apprezzati all’estero. Hai degli esempi di band o producer che in Italia secondo te sono sottovalutati mentre all’estero hanno buon seguito o potrebbero averne?
Sì, c’è un gruppo che si chiama Numa Crew che sono stati tra i primi in Italia fare dubstep nel 2006: sono bravissimi, infatti ho collaborato con loro. Alla fine non c’entra il luogo d’origine, la gente originale e brillante può venire da qualsiasi posto. Anni fa ho apprezzato molto il progetto Planet Funk e i Subsonica, poi quando abitavo in Italia da piccolo ascoltavo molto Jovanotti e 99 Posse. Alborosie poi è uno dei miei preferiti in assoluto.
Una domanda per chiudere: trovi più facile trasportare in studio brani nati in strada o viceversa?
Sono due mondi completamente diversi. Ciò che si fa in studio non è fatto per andare in strada, magari nei club, per i dj certo, ma in strada c’è un’altra energia. Io sono uno che dal vivo riesce a esprimersi al 100% dando tutto, mentre in studio non sono ancora riuscito a ricreare quella forza. Dal vivo l’esperienza è più completa, il 50% di quello che faccio è visuale, importa meno la resa della musica. Ci si può permettere anche qualche sbavatura ma è coperta dall’energia della performance. In studio invece no, deve essere tutto perfetto ma è più difficile in questo modo trasmettere la stessa energia.